NOVEMBRE
NOVEMBRE
Lo
spazzacamino
1, martedì
Ieri
sera andai alla Sezione femminile, accanto alla nostra, per dare il racconto del
ragazzo padovano alla maestra di Silvia, che lo voleva leggere. Settecento
ragazze ci sono! Quando arrivai cominciavano a uscire, tutte allegre per le
vacanze d'Ognissanti e dei morti; ed ecco una bella cosa che vidi. Di fronte
alla porta della scuola, dall'altra parte della via, stava con un braccio
appoggiato al muro e colla fronte contro il braccio, uno spazzacamino, molto
piccolo, tutto nero in viso, col suo sacco e il suo raschiatoio, e piangeva
dirottamente, singhiozzando. Due o tre ragazze della seconda gli s'avvicinarono
e gli dissero: - Che hai che piangi a quella maniera? - Ma egli non rispose, e
continuava a piangere. - Ma di' che cos'hai, perché piangi? - gli ripeterono le
ragazze. E allora egli levò il viso dal braccio, - un viso di bambino, - e disse
piangendo che era stato in varie case a spazzare, dove s'era guadagnato trenta
soldi, e li aveva persi, gli erano scappati per la sdrucitura d'una tasca, - e
faceva veder la sdrucitura, - e non osava più tornare a casa senza i soldi. - Il
padrone mi bastona, - disse singhiozzando, e riabbandonò il capo sul braccio,
come un disperato. Le bambine stettero a guardarlo, tutte serie. Intanto s'erano
avvicinate altre ragazze grandi e piccole, povere e signorine, con le loro
cartelle sotto il braccio, e una grande, che aveva una penna azzurra sul
cappello, cavò di tasca due soldi, e disse: - Io non ho che due soldi: facciamo
la colletta. - Anch'io ho due soldi, - disse un'altra vestita di rosso; - ne
troveremo ben trenta fra tutte. - E allora cominciarono a chiamarsi: - Amalia! -
Luigia! - Annina! - Un soldo. - Chi ha dei soldi? - Qua i soldi! - Parecchie
avevan dei soldi per comprarsi fiori o quaderni, e li portarono, alcune più
piccole diedero dei centesimi; quella della penna azzurra raccoglieva tutto, e
contava a voce alta: - Otto, dieci, quindici! - Ma ci voleva altro. Allora
comparve una più grande di tutte, che pareva quasi una maestrina, e diede mezza
lira, e tutte a farle festa. Mancavano ancora cinque soldi. - Ora vengono quelle
della quarta che ne hanno, - disse una. Quelle della quarta vennero e i soldi
fioccarono. Tutte s'affollavano. Ed era bello a vedere quel povero spazzacamino
in mezzo a tutte quelle vestine di tanti colori, a tutto quel rigirìo di penne,
di nastrini, di riccioli. I trenta soldi c'erano già, e ne venivano ancora, e le
più piccine che non avevan denaro, si facevan largo tra le grandi porgendo i
loro mazzetti di fiori, tanto per dar qualche cosa. Tutt'a un tratto arrivò la
portinaia gridando: - La signora Direttrice! - Le ragazze scapparono da tutte le
parti come uno stormo di passeri. E allora si vide il piccolo spazzacamino, solo
in mezzo alla via, che s'asciugava gli occhi, tutto contento, con le mani piene
di denari, e aveva nell'abbottonatura della giacchetta, nelle tasche, nel
cappello tanti mazzetti di fiori, e c'erano anche dei fiori per terra, ai suoi
piedi.
Il giorno dei
morti
2, mercoledì
Questo giorno è consacrato alla commemorazione dei morti. Sai, Enrico, a quali
morti dovreste tutti dedicare un pensiero in questo giorno, voi altri ragazzi? A
quelli che morirono per voi, per i ragazzi, per i bambini. Quanti ne morirono, e
quanti ne muoiono di continuo! Pensasti mai a quanti padri si logoraron la vita
al lavoro, a quante madri discesero nella fossa innanzi tempo, consumate dalle
privazioni a cui si condannarono per sostentare i loro figliuoli? Sai quanti
uomini si piantarono un coltello nel cuore per la disperazione di vedere i
propri ragazzi nella miseria, e quante donne s'annegarono o moriron di dolore o
impazzirono per aver perduto un bambino? Pensa a tutti quei morti, in questo
giorno, Enrico. Pensa alle tante maestre che son morte giovani, intisichite
dalle fatiche della scuola, per amore dei bambini, da cui non ebbero cuore di
separarsi, pensa ai medici che morirono di malattie attaccaticcie, sfidate
coraggiosamente per curar dei fanciulli; pensa a tutti coloro che nei naufragi,
negli incendi, nelle carestie, in un momento di supremo pericolo, cedettero
all'infanzia l'ultimo tozzo di pane, l'ultima tavola di salvamento, l'ultima
fune per scampare alle fiamme, e spirarono contenti del loro sacrificio, che
serbava in vita un piccolo innocente. Sono innumerevoli, Enrico, questi morti;
ogni cimitero ne racchiude centinaia di queste sante creature, che se potessero
levarsi un momento dalla fossa griderebbero il nome d'un fanciullo, al quale
sacrificarono i piaceri della gioventù, la pace della vecchiaia, gli affetti,
l'intelligenza, la vita: spose di vent'anni, uomini nel fior delle forze,
vecchie ottuagenarie, giovinetti, - martiri eroici e oscuri dell'infanzia, -
così grandi e così gentili, che non fa tanti fiori la terra, quanti ne dovremmo
dare ai loro sepolcri. Tanto siete amati, o fanciulli! Pensa oggi a quei morti
con gratitudine, e sarai più buono e più affettuoso con tutti quelli che ti
voglion bene e che fatican per te, caro figliuol mio fortunato, che nel giorno
dei morti non hai ancora da piangere nessuno!
TUA MADRE
Il mio amico
Garrone
4, venerdì
Non
furon che due giorni di vacanza e mi parve di star tanto tempo senza rivedere
Garrone. Quanto più lo conosco, tanto più gli voglio bene, e così segue a tutti
gli altri, fuorché ai prepotenti, che con lui non se la dicono, perché egli non
lascia far prepotenze. Ogni volta che uno grande alza la mano su di uno piccolo,
il piccolo grida: - Garrone! - e il grande non picchia più. Suo padre è
macchinista della strada ferrata; egli cominciò tardi le scuole perché fu malato
due anni. É il più alto e il più forte della classe, alza un banco con una mano,
mangia sempre, è buono. Qualunque cosa gli domandino, matita, gomma, carta,
temperino, impresta o dà tutto; e non parla e non ride in iscuola: se ne sta
sempre immobile nel banco troppo stretto per lui, con la schiena arrotondata e
il testone dentro le spalle; e quando lo guardo, mi fa un sorriso con gli occhi
socchiusi come per dirmi: - Ebbene, Enrico, siamo amici? - Ma fa ridere, grande
e grosso com'è, che ha giacchetta, calzoni, maniche, tutto troppo stretto e
troppo corto, un cappello che non gli sta in capo, il capo rapato, le scarpe
grosse, e una cravatta sempre attorcigliata come una corda. Caro Garrone, basta
guardarlo in viso una volta per prendergli affetto. Tutti i più piccoli gli
vorrebbero essere vicini di banco. Sa bene l'aritmetica. Porta i libri a
castellina, legati con una cigna di cuoio rosso. Ha un coltello col manico di
madreperla che trovò l'anno passato in piazza d'armi, e un giorno si tagliò un
dito fino all'osso, ma nessuno in iscuola se n'avvide, e a casa non rifiatò per
non spaventare i parenti. Qualunque cosa si lascia dire per celia e mai non se
n'ha per male; ma guai se gli dicono: - Non è vero,- quando afferma una cosa:
getta fuoco dagli occhi allora, e martella pugni da spaccare il banco. Sabato
mattina diede un soldo a uno della prima superiore, che piangeva in mezzo alla
strada, perché gli avevan preso il suo, e non poteva più comprare il quaderno.
Ora sono tre giorni che sta lavorando attorno a una lettera di otto pagine con
ornati a penna nei margini per l'onomastico di sua madre, che spesso viene a
prenderlo, ed è alta e grossa come lui, e simpatica. Il maestro lo guarda
sempre, e ogni volta che gli passa accanto gli batte la mano sul collo come a un
buon torello tranquillo. Io gli voglio bene. Son contento quando stringo nella
mia la sua grossa mano, che par la mano d'un uomo. Sono così certo che
rischierebbe la vita per salvare un compagno, che si farebbe anche ammazzare per
difenderlo, si vede così chiaro nei suoi occhi; e benché paia sempre che
brontoli con quel vocione, è una voce che viene da un cor gentile, si sente.
Il
carbonaio e il signore
7, lunedì
Non
l'avrebbe mai detta Garrone, sicuramente, quella parola che disse ieri mattina
Carlo Nobis a Betti. Carlo Nobis è superbo perché suo padre è un gran signore:
un signore alto, con tutta la barba nera, molto serio, che viene quasi ogni
giorno ad accompagnare il figliuolo. Ieri mattina Nobis si bisticciò con Betti,
uno dei più piccoli, figliuolo d'un carbonaio, e non sapendo più che
rispondergli, perché aveva torto, gli disse forte: - Tuo padre è uno straccione.
- Betti arrossì fino ai capelli, e non disse nulla, ma gli vennero le lacrime
agli occhi, e tornato a casa ripeté la parola a suo padre; ed ecco il carbonaio,
un piccolo uomo tutto nero, che compare alla lezione del dopopranzo col ragazzo
per mano, a fare le lagnanze al maestro. Mentre faceva le sue lagnanze al
maestro, e tutti tacevano, il padre di Nobis, che levava il mantello al
figliuolo, come al solito, sulla soglia dell'uscio, udendo pronunciare il suo
nome, entrò, e domandò spiegazione.
- É quest'operaio, - rispose il maestro, - che è venuto a lagnarsi perché il suo
figliuolo Carlo disse al suo ragazzo: Tuo padre è uno straccione.
Il padre di Nobis corrugò la fronte e arrossì leggermente. Poi domandò al
figliuolo: - Hai detto quella parola?
Il figliuolo, - ritto in mezzo alla scuola, col capo basso, davanti al piccolo
Betti, - non rispose.
Allora il padre lo prese per un braccio e lo spinse più avanti in faccia a
Betti, che quasi si toccavano, e gli disse: - Domandagli scusa.
Il carbonaio volle interporsi, dicendo: - No, no. - Ma il signore non gli badò,
e ripeté al figliuolo: - Domandagli scusa. Ripeti le mie parole. Io ti domando
scusa della parola ingiuriosa, insensata, ignobile che dissi contro tuo padre,
al quale il mio... si tiene onorato di stringere la mano.
Il carbonaio fece un gesto risoluto, come a dire: Non voglio. Il signore non gli
diè retta, e il suo figliuolo disse lentamente, con un fil di voce, senza alzar
gli occhi da terra: - Io ti domando scusa... della parola ingiuriosa...
insensata... ignobile, che dissi contro tuo padre, al quale il mio... si tiene
onorato di stringer la mano.
Allora il signore porse la mano al carbonaio, il quale gliela strinse con forza,
e poi subito con una spinta gettò il suo ragazzo fra le braccia di Carlo Nobis.
- Mi faccia il favore di metterli vicini, - disse il signore al maestro. - Il
maestro mise Betti nel banco di Nobis. Quando furono al posto, il padre di Nobis
fece un saluto ed uscì.
Il carbonaio rimase qualche momento sopra pensiero, guardando i due ragazzi
vicini; poi s'avvicinò al banco, e fissò Nobis, con espressione d'affetto e di
rammarico, come se volesse dirgli qualcosa; ma non disse nulla; allungò la mano
per fargli una carezza, ma neppure osò, e gli strisciò soltanto la fronte con le
sue grosse dita. Poi s'avviò all'uscio, e voltatosi ancora una volta a
guardarlo, sparì. - Ricordatevi bene di quel che avete visto, ragazzi, - disse
il maestro, - questa è la più bella lezione dell'anno.
La
maestra di mio fratello
10, giovedì
Il
figliuolo del carbonaio fu scolaro della maestra Delcati che è venuta oggi a
trovar mio fratello malaticcio, e ci ha fatto ridere a raccontarci che la mamma
di quel ragazzo, due anni fa, le portò a casa una grande grembialata di carbone,
per ringraziarla, che aveva dato la medaglia al figliuolo; e s'ostinava, povera
donna, non voleva riportarsi il carbone a casa, e piangeva quasi, quando dovette
tornarsene col grembiale pieno. Anche d'un'altra buona donna, ci ha detto, che
le portò un mazzetto di fiori molto pesante, e c'era dentro un gruzzoletto di
soldi. Ci siamo molto divertiti a sentirla, e così mio fratello trangugiò la
medicina, che prima non voleva. Quanta pazienza debbono avere con quei ragazzi
della prima inferiore, tutti sdentati come vecchietti, che non pronunziano
l'erre e l'esse, e uno tosse, l'altro fila sangue dal naso, chi perde gli
zoccoli sotto il banco, e chi bela perché s'è punto con la penna, e chi piange
perché ha comprato un quaderno numero due invece di numero uno. Cinquanta in una
classe, che non san nulla, con quei manini di burro, e dover insegnare a
scrivere a tutti! Essi portano in tasca dei pezzi di regolizia, dei bottoni, dei
turaccioli di boccetta, del mattone tritato, ogni specie di cose minuscole, e
bisogna che la maestra li frughi; ma nascondon gli oggetti fin nelle scarpe. E
non stanno attenti: un moscone che entra per la finestra, mette tutti
sottosopra, e l'estate portano in iscuola dell'erba e dei maggiolini, che volano
in giro o cascano nei calamai e poi rigano i quaderni d'inchiostro. La maestra
deve far la mamma con loro, aiutarli a vestirsi, fasciare le dita punte,
raccattare i berretti che cascano, badare che non si scambino i cappotti, se no
poi gnaulano e strillano. Povere maestre! E ancora vengono le mamme a lagnarsi:
come va, signorina, che il mio bambino ha perso la penna? com'è che il mio non
impara niente? perché non dà la menzione al mio, che sa tanto? perché non fa
levar quel chiodo dal banco che ha stracciato i calzoni al mio Piero? Qualche
volta s'arrabbia coi ragazzi la maestra di mio fratello, e quando non ne può
più, si morde un dito, per non lasciar andare una pacca; perde la pazienza, ma
poi si pente, e carezza il bimbo che ha sgridato; scaccia un monello di scuola,
ma si ribeve le lacrime, e va in collera coi parenti che fan digiunare i bimbi
per castigo. É giovane e grande la maestra Delcati, e vestita bene, bruna e
irrequieta, che fa tutto a scatto di molla, e per un nulla si commove, e allora
parla con grande tenerezza. - Ma almeno i bimbi le si affezionano? - le ha detto
mia madre. - Molti sì, - ha risposto, - ma poi, finito l'anno, la maggior parte
non ci guardan più. Quando sono coi maestri, si vergognano quasi d'essere stati
da noi, da una maestra. Dopo due anni di cure, dopo che s'è amato tanto un
bambino, ci fa tristezza separarci da lui, ma si dice: - Oh di quello lì son
sicura; quello lì mi vorrà bene. - Ma passano le vacanze, si rientra alla
scuola, gli corriamo incontro: - O bambino, bambino mio! - E lui volta il capo
da un'altra parte. - Qui la maestra s'è interrotta. - Ma tu non farai così
piccino? - ha detto poi, alzandosi con gli occhi umidi, e baciando mio fratello,
- tu non la volterai la testa dall'altra parte, non è vero? non la rinnegherai
la tua povera amica.
Mia
madre
10, giovedì
In
presenza della maestra di tuo fratello tu mancasti di rispetto a tua madre! Che
questo non avvenga mai più, Enrico, mai più! La tua parola irriverente m'è
entrata nel cuore come una punta d'acciaio. Io pensai a tua madre quando, anni
sono, stette chinata tutta una notte sul tuo piccolo letto, a misurare il tuo
respiro, piangendo sangue dall'angoscia e battendo i denti dal terrore, ché
credeva di perderti, ed io temevo che smarrisse la ragione; e a quel pensiero
provai un senso di ribrezzo per te. Tu, offender tua madre! tua madre che
darebbe un anno di felicità per risparmiarti un'ora di dolore, che mendicherebbe
per te, che si farebbe uccidere per salvarti la vita! Senti, Enrico. Fissati
bene in mente questo pensiero. Immagina pure che ti siano destinati nella vita
molti giorni terribili; il più terribile di tutti sarà il giorno in cui perderai
tua madre. Mille volte, Enrico, quando già sarai uomo, forte, provato a tutte le
lotte, tu la invocherai, oppresso da un desiderio immenso di risentire un
momento la sua voce e di rivedere le sue braccia aperte per gettarvisi
singhiozzando, come un povero fanciullo senza protezione e senza conforto. Come
ti ricorderai allora d'ogni amarezza che le avrai cagionato, e con che rimorsi
le sconterai tutte, infelice! Non sperar serenità nella tua vita, se avrai
contristato tua madre. Tu sarai pentito, le domanderai perdono, venererai la sua
memoria; - inutilmente, - la coscienza non ti darà pace, quella immagine dolce e
buona avrà sempre per te un'espressione di tristezza e di rimprovero che ti
metterà l'anima alla tortura. O Enrico, bada: questo è il più sacro degli
affetti umani, disgraziato chi lo calpesta. L'assassino che rispetta sua madre
ha ancora qualcosa di onesto e di gentile nel cuore, il più glorioso degli
uomini, che l'addolori e l'offenda, non è che una vile creatura. Che non t'esca
mai più dalla bocca una dura parola per colei che ti diede la vita. E se una
ancora te ne sfuggisse, non sia il timore di tuo padre, sia l'impulso dell'anima
che ti getti ai suoi piedi, a supplicarla che col bacio del perdono ti cancelli
dalla fronte il marchio dell'ingratitudine. Io t'amo, figliuol mio, tu sei la
speranza più cara della mia vita; ma vorrei piuttosto vederti morto che ingrato
a tua madre. Va', e per un po' di tempo non portarmi più la tua carezza; non te
la potrei ricambiare col cuore.
TUO PADRE
Il
mio compagno Coretti
13, domenica
Mio
padre mi perdonò; ma io rimasi un poco triste, e allora mia madre mi mandò col
figliuolo grande del portinaio a fare una passeggiata sul corso. A metà circa
del corso, passando vicino a un carro fermo davanti a una bottega, mi sento
chiamare per nome, mi volto: era Coretti, il mio compagno di scuola, con la sua
maglia color cioccolata e il suo berretto di pelo di gatto tutto sudato e
allegro, che aveva un gran carico di legna sulle spalle. Un uomo ritto sul carro
gli porgeva una bracciata di legna per volta, egli le pigliava e le portava
nella bottega di suo padre, dove in fretta e in furia le accatastava.
- Che fai, Coretti? - gli domandai.
- Non vedi? - rispose, tendendo le braccia per pigliare il carico, - ripasso la
lezione.
Io risi. Ma egli parlava sul serio, e presa la bracciata di legna, cominciò a
dire correndo: - Chiamansi accidenti del verbo... le sue variazioni secondo
il numero... secondo il numero e la persona...
E poi, buttando giù la legna e accatastandola: - secondo il tempo... secondo
il tempo a cui si riferisce l'azione...
E tornando verso il carro a prendere un'altra bracciata: - secondo il modo in
cui l'azione è enunciata.
Era la nostra lezione di grammatica per il giorno dopo. - Che vuoi, - mi disse,
- metto il tempo a profitto. Mio padre è andato via col garzone per una
faccenda. Mia madre è malata. Tocca a me a scaricare. Intanto ripasso la
grammatica. É
una lezione difficile oggi. Non riesco a pestarmela nella testa. Mio padre ha
detto che sarà qui alle sette per darvi i soldi, - disse poi all'uomo del carro.
Il carro partì. - Vieni un momento in bottega, - mi disse Coretti. Entrai: era
uno stanzone pieno di cataste di legna e di fascine, con una stadera da una
parte. - Oggi è giorno di sgobbo, te lo accerto io, - ripigliò Coretti; - debbo
fare il lavoro a pezzi e a bocconi. Stavo scrivendo le proposizioni, è venuta
gente a comprare. Mi son rimesso a scrivere, eccoti il carro. Questa mattina ho
già fatto due corse al mercato delle legna in piazza Venezia. Non mi sento più
le gambe e ho le mani gonfie. Starei fresco se avessi il lavoro di disegno! - E
intanto dava un colpo di scopa alle foglie secche e ai fuscelli che coprivano
l'ammattonato.
- Ma dove lo fai il lavoro, Coretti? - gli domandai.
- Non qui di certo, - riprese; - vieni a vedere; - e mi condusse in uno stanzino
dietro la bottega, che serve da cucina e da stanza da mangiare, con un tavolo in
un canto, dove ci aveva i libri e i quaderni, e il lavoro incominciato. - Giusto
appunto, disse, - ho lasciato la seconda risposta per aria: col cuoio si
fanno le calzature, le cinghie... Ora ci aggiungo le valigie. - E
presa la penna, si mise a scrivere con la sua bella calligrafia. - C'è nessuno?
- s'udì gridare in quel momento dalla bottega. Era una donna che veniva a
comprar fascinotti. - Eccomi, - rispose Coretti; e saltò di là, pesò i
fascinotti, prese i soldi, corse in un angolo a segnar la vendita in uno
scartafaccio e ritornò al suo lavoro, dicendo: - Vediamo un po' se mi riesce di
finire il periodo. - E scrisse: le borse da viaggio, gli zaini per i soldati.
- Ah il mio povero caffè che scappa via! - gridò all'improvviso e corse al
fornello a levare la caffettiera dal fuoco. - É il caffè per la mamma, - disse;
- bisognò bene che imparassi a farlo. Aspetta un po' che glie lo portiamo; così
ti vedrà, le farà piacere. Son sette giorni che è a letto... Accidenti del
verbo! Mi scotto sempre le dita con questa caffettiera. Che cosa ho da
aggiungere dopo gli zaini per i soldati? Ci vuole qualche altra cosa e non la
trovo. Vieni dalla mamma.
Aperse un uscio, entrammo in un'altra camera piccola: c'era la mamma di Coretti
in un letto grande, con un fazzoletto bianco intorno al capo.
- Ecco il caffè, mamma, - disse Coretti porgendo la tazza; - questo è un mio
compagno di scuola.
- Ah! bravo il signorino, - mi disse la donna; - viene a far visita ai malati,
non è vero?
Intanto Coretti accomodava i guanciali dietro alle spalle di sua madre,
raggiustava le coperte del letto, riattizzava il fuoco, cacciava il gatto dal
cassettone. - Vi occorre altro, mamma? - domandò poi, ripigliando la tazza. - Li
avete presi i due cucchiaini di siroppo? Quando non ce ne sarà più darò una
scappata dallo speziale. Le legna sono scaricate. Alle quattro metterò la carne
al fuoco, come avete detto, e quando passerà la donna del burro le darò quegli
otto soldi. Tutto andrà bene, non vi date pensiero.
- Grazie, figliuolo, - rispose la donna; - povero figliuolo, va'! Egli pensa a
tutto.
Volle che pigliassi un pezzo di zucchero, e poi Coretti mi mostrò un quadretto,
il ritratto in fotografia di suo padre, vestito da soldato, con la medaglia al
valore, che guadagnò nel '66, nel quadrato del principe Umberto; lo stesso viso
del figliuolo, con quegli occhi vivi e quel sorriso così allegro. Tornammo nella
cucina. - Ho trovato la cosa, - disse Coretti, e aggiunse sul quaderno: si
fanno anche i finimenti dei cavalli. - Il resto lo farò stasera, starò
levato fino a più tardi. Felice te che hai tutto il tempo per studiare e puoi
ancora andare a passeggio!
E sempre gaio e lesto, rientrato in bottega, cominciò a mettere dei pezzi di
legno sul cavalletto e a segarli per mezzo, e diceva: - Questa è ginnastica!
Altro che la spinta delle braccia avanti. Voglio che mio padre trovi
tutte queste legna segate quando torna a casa: sarà contento. Il male è che dopo
aver segato faccio dei t e degli l, che paion serpenti, come dice
il maestro. Che ci ho da fare? Gli dirò che ho dovuto menar le braccia. Quello
che importa è che la mamma guarisca presto, questo sì. Oggi sta meglio, grazie
al cielo. La grammatica la studierò domattina al canto del gallo. Oh! ecco la
carretta coi ceppi! Al lavoro.
Una carretta carica di ceppi si fermò davanti alla bottega. Coretti corse fuori
a parlar con l'uomo poi tornò. - Ora non posso più tenerti compagnia, - mi
disse; - a rivederci domani. Hai fatto bene a venirmi a trovare. Buona
passeggiata! Felice te.
E strettami la mano, corse a pigliar il primo ceppo, e ricominciò a trottare fra
il carro e la bottega, col viso fresco come una rosa sotto al suo berretto di
pel di gatto, e vispo che metteva allegrezza a vederlo
Felice te! egli mi disse. Ah no, Coretti, no: sei tu il più felice, tu perché
studi e lavori di più, perché sei più utile a tuo padre e a tua madre, perché
sei più buono, cento volte più buono e più bravo di me, caro compagno mio.
Il
Direttore
18, venerdì
Coretti era contento questa mattina perché è venuto ad assistere al lavoro
d'esame mensile il suo maestro di seconda, Coatti, un omone con una grande
capigliatura crespa, una gran barba nera, due grandi occhi scuri, e una voce da
bombarda; il quale minaccia sempre i ragazzi di farli a pezzi e di portarli per
il collo in Questura, e fa ogni specie di facce spaventevoli; ma non castiga mai
nessuno, anzi sorride sempre dentro la barba, senza farsi scorgere. Otto sono,
con Coatti, i maestri, compreso un supplente piccolo e senza barba, che pare un
giovinetto. C'è un maestro di quarta, zoppo, imbacuccato in una grande cravatta
di lana, sempre tutto pieno di dolori, e si prese quei dolori quando era maestro
rurale, in una scuola umida dove i muri gocciolavano. Un altro maestro di quarta
è vecchio e tutto bianco ed è stato maestro dei ciechi. Ce n'è uno ben vestito,
con gli occhiali, e due baffetti biondi, che chiamavano l'avvocatino,
perché facendo il maestro studiò da avvocato e prese la laurea, e fece anche un
libro per insegnare a scriver le lettere. Invece quello che c'insegna la
ginnastica è un tipo di soldato, è stato con Garibaldi, e ha sul collo la
cicatrice d'una ferita di sciabola toccata alla battaglia di Milazzo. Poi c'è il
Direttore, alto, calvo con gli occhiali d'oro, con la barba grigia che gli vien
sul petto, tutto vestito di nero e sempre abbottonato fin sotto il mento; così
buono coi ragazzi, che quando entrano tutti tremanti in Direzione, chiamati per
un rimprovero, non li sgrida, ma li piglia per le mani, e dice tante ragioni,
che non dovevan far così, e che bisogna che si pentano, e che promettano d'esser
buoni, e parla con tanta buona maniera e con una voce così dolce che tutti
escono con gli occhi rossi, più confusi che se li avesse puniti. Povero
Direttore, egli è sempre il primo al suo posto, la mattina, a aspettare gli
scolari e a dar retta ai parenti, e quando i maestri son già avviati verso casa,
gira ancora intorno alla scuola a vedere che i ragazzi non si caccino sotto le
carrozze, o non si trattengan per le strade a far querciola, o a empir gli zaini
di sabbia o di sassi; e ogni volta che appare a una cantonata, così alto e nero,
stormi di ragazzi scappano da tutte le parti, piantando lì il giuoco dei pennini
e delle biglie, ed egli li minaccia con l'indice da lontano, con la sua aria
amorevole e triste. Nessuno l'ha più visto ridere, dice mia madre, dopo che gli
è morto il figliuolo ch'era volontario nell'esercito; ed egli ha sempre il suo
ritratto davanti agli occhi, sul tavolino della Direzione. E se ne voleva andare
dopo quella disgrazia; aveva già fatto la sua domanda di riposo al Municipio, e
la teneva sempre sul tavolino, aspettando di giorno in giorno a mandarla, perché
gli rincresceva di lasciare i fanciulli. Ma l'altro giorno pareva deciso, e mio
padre ch'era con lui nella Direzione, gli diceva: - Che peccato che se ne vada,
signor Direttore! - quando entrò un uomo a fare iscrivere un ragazzo, che
passava da un'altra sezione alla nostra perché aveva cambiato di casa. A veder
quel ragazzo il Direttore fece un atto di meraviglia, - lo guardò un pezzo,
guardò il ritratto che tien sul tavolino e tornò a guardare il ragazzo,
tirandoselo fra le ginocchia e facendogli alzare il viso. Quel ragazzo
somigliava tutto al suo figliuolo morto. Il Direttore disse: - Va bene; - fece
l'iscrizione, congedò padre e figlio, e restò pensieroso. - Che peccato che se
ne vada! - ripeté mio padre. E allora il Direttore prese la sua domanda di
riposo, la fece in due pezzi e disse: - Rimango.
I
soldati
22, martedì
Il suo
figliuolo era volontario nell'esercito quando morì: per questo il Direttore va
sempre sul corso a veder passare i soldati, quando usciamo dalla scuola. Ieri
passava un reggimento di fanteria, e cinquanta ragazzi si misero a saltellare
intorno alla banda musicale, cantando e battendo il tempo colle righe sugli
zaini e sulle cartelle. Noi stavamo in un gruppo, sul marciapiede a guardare:
Garrone, strizzato nei suoi vestiti troppo stretti, che addentava un gran pezzo
di pane; Votini, quello ben vestito, che si leva sempre i peluzzi dai panni;
Precossi, il figliuolo del fabbro, con la giacchetta di suo padre, e il
calabrese, e il muratorino, e Crossi con la sua testa rossa, e Franti con la sua
faccia tosta, e anche Robetti, il figliuolo del capitano d'artiglieria, quello
che salvò un bambino dall'omnibus, e che ora cammina con le stampelle. Franti
fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava. Ma subito si sentì la mano
d'un uomo sulla spalla: si voltò: era il Direttore. - Bada, - gli disse il
Direttore; - schernire un soldato quand'è nelle file, che non può né vendicarsi
né rispondere, è come insultare un uomo legato: è una viltà. - Franti scomparve.
I soldati passavano a quattro a quattro, sudati e coperti di polvere, e i fucili
scintillavano al sole. Il Direttore disse: - Voi dovete voler bene ai soldati,
ragazzi. Sono i nostri difensori, quelli che andrebbero a farsi uccidere per
noi, se domani un esercito straniero minacciasse il nostro paese. Sono ragazzi
anch'essi, hanno pochi anni più di voi; e anch'essi vanno a scuola; e ci sono
poveri e signori, fra loro, come fra voi, e vengono da tutte le parti d'Italia.
Vedete, si posson quasi riconoscere al viso: passano dei Siciliani, dei Sardi,
dei Napoletani, dei Lombardi. Questo poi è un reggimento vecchio, di quelli che
hanno combattuto nel 1848. I soldati non son più quelli, ma la bandiera è sempre
la stessa. Quanti erano già morti per il nostro paese intorno a quella bandiera
venti anni prima che voi nasceste! - Eccola qui, - disse Garrone. E infatti si
vedeva poco lontano la bandiera, che veniva innanzi, al di sopra delle teste dei
soldati. - Fate una cosa, figliuoli, - disse il Direttore, - fate il vostro
saluto di scolari, con la mano alla fronte, quando passano i tre colori. - La
bandiera, portata da un ufficiale, ci passò davanti, tutta lacera e stinta, con
le medaglie appese all'asta. Noi mettemmo la mano alla fronte, tutt'insieme.
L'ufficiale ci guardò, sorridendo, e ci restituì il saluto con la mano. - Bravi,
ragazzi, - disse uno dietro di noi. Ci voltammo a guardare: era un vecchio che
aveva all'occhiello del vestito il nastrino azzurro della campagna di Crimea: un
ufficiale pensionato. - Bravi, - disse, - avete fatto una cosa bella. - Intanto
la banda del reggimento svoltava in fondo al corso, circondata da una turba di
ragazzi, e cento grida allegre accompagnavan gli squilli delle trombe come un
canto di guerra. - Bravi, - ripeté il vecchio ufficiale, guardandoci; - chi
rispetta la bandiera da piccolo la saprà difender da grande.
Il
protettore di Nelli
23, mercoledì
Anche
Nelli, ieri, guardava i soldati, povero gobbino, ma con un'aria così, come se
pensasse: - Io non potrò esser mai un soldato! - Egli è buono, studia; ma è così
magrino e smorto, e respira a fatica. Porta sempre un lungo grembiale di tela
nera lucida. Sua madre è una signora piccola a bionda, vestita di nero, e vien
sempre a prenderlo al finis, perché non esca nella confusione, con gli
altri; e lo accarezza. I primi giorni, perché ha quella disgrazia d'esser gobbo,
molti ragazzi lo beffavano e gli picchiavan sulla schiena con gli zaini; ma egli
non si rivoltava mai, e non diceva mai nulla a sua madre, per non darle quel
dolore di sapere che suo figlio era lo zimbello dei compagni; lo schernivano, ed
egli piangeva e taceva, appoggiando la fronte sul banco. Ma una mattina saltò su
Garrone e disse: - Il primo che tocca Nelli gli do uno scapaccione che gli
faccio far tre giravolte! - Franti non gli badò, lo scapaccione partì, l'amico
fece le tre giravolte, e dopo d'allora nessuno toccò più Nelli. Il maestro gli
mise Garrone vicino, nello stesso banco. Si sono fatti amici. Nelli s'è
affezionato molto a Garrone. Appena entra nella scuola, cerca subito se c'è
Garrone. Non va mai via senza dire: - Addio, Garrone. - E così fa Garrone con
lui. Quando Nelli lascia cascar la penna o un libro sotto il banco, subito,
perché non faccia fatica a chinarsi, Garrone si china e gli porge il libro o la
penna; e poi l'aiuta a rimetter la roba nello zaino, e a infilarsi il cappotto.
Per questo Nelli gli vuol bene, e lo guarda sempre, e quando il maestro lo loda
è contento, come se lodasse lui. Ora bisogna che Nelli, finalmente, abbia detto
tutto a sua madre, e degli scherni dei primi giorni e di quello che gli facevan
patire, e poi del compagno che lo difese e che gli ha posto affetto, perché,
ecco quello che accadde questa mattina. Il maestro mi mandò a portare al
Direttore il programma della lezione, mezz'ora prima del finis, ed io ero
nell'ufficio quando entrò una signora bionda e vestita di nero, la mamma di
Nelli, la quale disse: - Signor Direttore, c'è nella classe del mio figliuolo un
ragazzo che si chiama Garrone? - C'è, - rispose il Direttore. - Vuol aver la
bontà di farlo venire un momento qui, che gli ho da dire una parola? - Il
Direttore chiamò il bidello e lo mandò in iscuola, e dopo un minuto ecco lì
Garrone sull'uscio con la sua testa grossa e rapata, tutto stupito. Appena lo
vide, la signora gli corse incontro, gli gettò le mani sulle spalle e gli diede
tanti baci sulla testa dicendo: - Sei tu, Garrone, l'amico del mio figliuolo, il
protettore del mio povero bambino, sei tu, caro, bravo ragazzo, sei tu! - Poi
frugò in furia nelle tasche e nella borsa, e non trovando nulla, si staccò dal
collo una catenella con una crocina, e la mise al collo di Garrone, sotto la
cravatta, e gli disse: - Prendila, portala per mia memoria, caro ragazzo, per
memoria della mamma di Nelli, che ti ringrazia e ti benedice.
Il
primo della classe
25, venerdì
Garrone s'attira l'affetto di tutti; Derossi, l'ammirazione. Ha preso la prima
medaglia, sarà sempre il primo anche quest'anno, nessuno può competer con lui,
tutti riconoscono la sua superiorità in tutte le materie. É il primo in
aritmetica, in grammatica, in composizione, in disegno, capisce ogni cosa al
volo, ha una memoria meravigliosa, riesce in tutto senza sforzo, pare che lo
studio sia un gioco per lui... Il maestro gli disse ieri: - Hai avuto dei grandi
doni da Dio, non hai altro da fare che non sciuparli. - E per di più è grande,
bello, con una gran corona di riccioli biondi, lesto che salta un banco
appoggiandovi una mano su; e sa già tirare di scherma. Ha dodici anni, è
figliuolo d'un negoziante, va sempre vestito di turchino con dei bottoni dorati,
sempre vivo, allegro, grazioso con tutti, e aiuta quanti può all'esame, e
nessuno ha mai osato fargli uno sgarbo o dirgli una brutta parola. Nobis e
Franti soltanto lo guardano per traverso e Votini schizza invidia dagli occhi;
ma egli non se n'accorge neppure. Tutti gli sorridono e lo pigliano per una mano
o per un braccio quando va attorno a raccogliere i lavori, con quella sua
maniera graziosa. Egli regala dei giornali illustrati, dei disegni, tutto quello
che a casa regalano a lui, ha fatto per il calabrese una piccola carta
geografica delle Calabrie; e dà tutto ridendo, senza badarci, come un gran
signore, senza predilezioni per alcuno. É impossibile non invidiarlo, non
sentirsi da meno di lui in ogni cosa. Ah! io pure, come Votini, l'invidio. E
provo un'amarezza, quasi un certo dispetto contro di lui, qualche volta, quando
stento a fare il lavoro a casa, e penso che a quell'ora egli l'ha già fatto,
benissimo e senza fatica. Ma poi, quando torno alla scuola, a vederlo così
bello, ridente, trionfante, a sentir come risponde alle interrogazioni del
maestro franco e sicuro, e com'è cortese e come tutti gli voglion bene, allora
ogni amarezza, ogni dispetto mi va via dal cuore, e mi vergogno d'aver provato
quei sentimenti. Vorrei essergli sempre vicino allora; vorrei poter fare tutte
le scuole con lui; la sua presenza, la sua voce mi mette coraggio, voglia di
lavorare, allegrezza, piacere. Il maestro gli ha dato da copiare il racconto
mensile che leggerà domani: La piccola vedetta lombarda; egli lo copiava
questa mattina, ed era commosso da quel fatto eroico, tutto acceso nel viso,
cogli occhi umidi e con la bocca tremante; e io lo guardavo, com'era bello e
nobile! Con che piacere gli avrei detto sul viso, francamente: - Derossi, tu
vali in tutto più di me! Tu sei un uomo a confronto mio! Io ti rispetto e ti
ammiro!
La
piccola vedetta lombarda
Racconto mensile
26, sabato
Nel
1859, durante la guerra per la liberazione della Lombardia, pochi giorni dopo la
battaglia di Solferino e San Martino, vinta dai Francesi e dagli Italiani contro
gli Austriaci, in una bella mattinata del mese di giugno, un piccolo drappello
di cavalleggieri di Saluzzo andava di lento passo, per un sentiero solitario,
verso il nemico, esplorando attentamente la campagna. Guidavano il drappello un
ufficiale e un sergente, e tutti guardavano lontano, davanti a sé, con occhio
fisso, muti, preparati a veder da un momento all'altro biancheggiare fra gli
alberi le divise degli avamposti nemici. Arrivarono così a una casetta rustica,
circondata di frassini, davanti alla quale se ne stava tutto solo un ragazzo
d'una dozzina d'anni, che scortecciava un piccolo ramo con un coltello, per
farsene un bastoncino; da una finestra della casa spenzolava una larga bandiera
tricolore; dentro non c'era nessuno: i contadini, messa fuori la bandiera, erano
scappati, per paura degli Austriaci. Appena visti i cavalleggieri, il ragazzo
buttò via il bastone e si levò il berretto. Era un bel ragazzo, di viso ardito,
con gli occhi grandi e celesti, coi capelli biondi e lunghi; era in maniche di
camicia, e mostrava il petto nudo.
- Che fai qui? - gli domandò l'ufficiale, fermando il cavallo. - Perché non sei
fuggito con la tua famiglia?
- Io non ho famiglia, - rispose il ragazzo. - Sono un trovatello. Lavoro un po'
per tutti. Son rimasto qui per veder la guerra.
- Hai visto passare degli Austriaci?
- No, da tre giorni.
L'ufficiale stette un poco pensando; poi saltò giù da cavallo, e lasciati i
soldati lì, rivolti verso il nemico, entrò nella casa e salì sul tetto... La
casa era bassa; dal tetto non si vedeva che un piccolo tratto di campagna. -
Bisogna salir sugli alberi, - disse l'ufficiale, e discese. Proprio davanti
all'aia si drizzava un frassino altissimo e sottile, che dondolava la vetta
nell'azzurro. L'ufficiale rimase un po' sopra pensiero, guardando ora l'albero
ora i soldati; poi tutt'a un tratto domandò al ragazzo:
- Hai buona vista, tu, monello?
- Io? - rispose il ragazzo. - Io vedo un passerotto lontano un miglio.
- Saresti buono a salire in cima a quell'albero?
- In cima a quell'albero? io? In mezzo minuto ci salgo.
- E sapresti dirmi quello che vedi di lassù, se c'è soldati austriaci da quella
parte, nuvoli di polvere, fucili che luccicano, cavalli?
- Sicuro che saprei.
- Che cosa vuoi per farmi questo servizio?
- Che cosa voglio? - disse il ragazzo sorridendo. - Niente. Bella cosa! E poi...
se fosse per i tedeschi, a nessun patto; ma per i nostri! Io sono
lombardo.
- Bene. Va su dunque.
- Un momento, che mi levi le scarpe.
Si levò le scarpe, si strinse la cinghia dei calzoni, buttò nell'erba il
berretto e abbracciò il tronco del frassino
- Ma bada... - esclamò l'ufficiale, facendo l'atto di trattenerlo, come preso da
un timore improvviso.
Il ragazzo si voltò a guardarlo, coi suoi begli occhi celesti, in atto
interrogativo.
- Niente, - disse l'ufficiale; - va su.
Il ragazzo andò su, come un gatto.
- Guardate davanti a voi, - gridò l'ufficiale ai soldati.
In pochi momenti il ragazzo fu sulla cima dell'albero, avviticchiato al fusto,
con le gambe fra le foglie, ma col busto scoperto, e il sole gli batteva sul
capo biondo, che pareva d'oro. L'ufficiale lo vedeva appena, tanto era piccino
lassù.
- Guarda dritto e lontano, - gridò l'ufficiale.
Il ragazzo, per veder meglio, staccò la mano destra dall'albero e se la mise
alla fronte.
- Che cosa vedi? - domandò l'ufficiale.
Il ragazzo chinò il viso verso di lui, e facendosi portavoce della mano,
rispose: - Due uomini a cavallo, sulla strada bianca.
- A che distanza di qui?
- Mezzo miglio.
- Movono?
- Son fermi.
- Che altro vedi? - domandò l'ufficiale, dopo un momento di silenzio. - Guarda a
destra.
Il ragazzo guardò a destra.
Poi disse: - Vicino al cimitero, tra gli alberi, c'è qualche cosa che luccica.
Paiono baionette.
- Vedi gente?
- No. Saran nascosti nel grano.
In quel momento un fischio di palla acutissimo passò alto per l'aria e andò a
morire lontano dietro alla casa.
- Scendi, ragazzo! - gridò l'ufficiale. - T'han visto. Non voglio altro. Vien
giù.
- Io non ho paura, - rispose il ragazzo.
- Scendi... - ripeté l'ufficiale, - che altro vedi, a sinistra?
- A sinistra?
- Sì, a sinistra
Il ragazzo sporse il capo a sinistra; in quel punto un altro fischio più acuto e
più basso del primo tagliò l'aria. Il ragazzo si riscosse tutto. - Accidenti! -
esclamò. - L'hanno proprio con me! - La palla gli era passata poco lontano.
- Scendi! - gridò l'ufficiale, imperioso e irritato.
- Scendo subito, - rispose il ragazzo. - Ma l'albero mi ripara, non dubiti. A
sinistra, vuole sapere?
- A sinistra, - rispose l'ufficiale; - ma scendi.
- A sinistra, - gridò il ragazzo, sporgendo il busto da quella parte, - dove c'è
una cappella, mi par di veder...
Un terzo fischio rabbioso passò in alto, e quasi ad un punto si vide il ragazzo
venir giù, trattenendosi per un tratto al fusto ed ai rami, e poi precipitando a
capo fitto colle braccia aperte.
- Maledizione! - gridò l'ufficiale, accorrendo.
Il ragazzo batté la schiena per terra e restò disteso con le braccia larghe,
supino; un rigagnolo di sangue gli sgorgava dal petto, a sinistra. Il sergente e
due soldati saltaron giù da cavallo; l'ufficiale si chinò e gli aprì la camicia:
la palla gli era entrata nel polmone sinistro. - É morto! - esclamò l'ufficiale.
- No, vive! - rispose il sergente. - Ah! povero ragazzo! bravo ragazzo! - gridò
l'ufficiale; - coraggio! coraggio! - Ma mentre gli diceva coraggio e gli premeva
il fazzoletto sulla ferita, il ragazzo stralunò gli occhi e abbandonò il capo:
era morto. L'ufficiale impallidì, e lo guardò fisso per un momento; poi lo
adagiò col capo sull'erba; s'alzò, e stette a guardarlo; anche il sergente e i
due soldati, immobili, lo guardavano: gli altri stavan rivolti verso il nemico.
- Povero ragazzo! - ripeté tristemente l'ufficiale. - Povero e bravo ragazzo!
Poi s'avvicinò alla casa, levò dalla finestra la bandiera tricolore, e la
distese come un drappo funebre sul piccolo morto, lasciandogli il viso scoperto.
Il sergente raccolse a fianco del morto le scarpe, il berretto, il bastoncino e
il coltello.
Stettero ancora un momento silenziosi; poi l'ufficiale si rivolse al sergente e
gli disse: - Lo manderemo a pigliare dall'ambulanza; è morto da soldato: lo
seppelliranno i soldati. - Detto questo mandò un bacio al morto con un atto
della mano, e gridò: - A cavallo. - Tutti balzarono in sella, il drappello si
riunì e riprese il suo cammino.
E poche ore dopo il piccolo morto ebbe i suoi onori di guerra.
Al tramontar del sole, tutta la linea degli avamposti italiani s'avanzava verso
il nemico, e per lo stesso cammino percorso la mattina dal drappello di
cavalleria, procedeva su due file un grosso battaglione di bersaglieri, il
quale, pochi giorni innanzi, aveva valorosamente rigato di sangue il colle di
San Martino. La notizia della morte del ragazzo era già corsa fra quei soldati
prima che lasciassero gli accampamenti. Il sentiero, fiancheggiato da un
rigagnolo, passava a pochi passi di distanza dalla casa. Quando i primi
ufficiali del battaglione videro il piccolo cadavere disteso ai piedi del
frassino e coperto dalla bandiera tricolore, lo salutarono con la sciabola; e
uno di essi si chinò sopra la sponda del rigagnolo, ch'era tutta fiorita,
strappò due fiori e glieli gettò. Allora tutti i bersaglieri, via via che
passavano, strapparono dei fiori e li gettarono al morto. In pochi minuti il
ragazzo fu coperto di fiori, e ufficiali e soldati gli mandavan tutti un saluto
passando: - Bravo, piccolo lombardo! - Addio, ragazzo! - A te, biondino! -
Evviva! - Gloria! - Addio! - Un ufficiale gli gettò la sua medaglia al valore,
un altro andò a baciargli la fronte. E i fiori continuavano a piovergli sui
piedi nudi, sul petto insanguinato, sul capo biondo. Ed egli se ne dormiva là
nell'erba, ravvolto nella sua bandiera, col viso bianco e quasi sorridente,
povero ragazzo, come se sentisse quei saluti, e fosse contento d'aver dato la
vita per la sua Lombardia.
I
poveri
29, martedì
Dare la vita per il proprio paese, come il ragazzo lombardo, è una grande virtù,
ma tu non trascurare le virtù piccole, figliuolo. Questa mattina, camminando
davanti a me quando tornavamo dalla scuola, passasti accanto a una povera, che
teneva fra le ginocchia un bambino stentito e smorto, e che ti domandò
l'elemosina. Tu la guardasti e non le desti nulla, e pure ci avevi dei soldi in
tasca. Senti, figliuolo. Non abituarti a passare indifferente davanti alla
miseria che tende la mano, e tanto meno davanti a una madre che chiede un soldo
per il suo bambino. Pensa che forse quel bambino aveva fame! pensa allo strazio
di quella povera donna. Te lo immagini il singhiozzo disperato di tua madre,
quando un giorno ti dovesse dire. - Enrico, oggi non posso darti nemmen del
pane? - Quand'io do un soldo a un mendico, ed egli mi dice. - Dio conservi la
salute a lei e alle sue creature! - tu non puoi comprendere la dolcezza che mi
danno al cuore quelle parole, la gratitudine che sento per quel povero. Mi par
davvero che quel buon augurio debba conservarsi in buona salute per molto tempo,
e ritorno a casa contento. e penso: Oh! quel povero m'ha reso assai più di
quanto gli ho dato! Ebbene, fa ch'io senta qualche volta quel buon augurio
provocato, meritato da te, togli tratto tratto un soldo dalla tua piccola borsa
per lasciarlo cadere nella mano d'un vecchio senza sostegno, d'una madre senza
pane, d'un bimbo senza madre. I poveri amano l'elemosina dei ragazzi perché non
li umilia, e perché i ragazzi, che han bisogno di tutti, somigliano a loro. vedi
che ce n'è sempre intorno alle scuole, dei poveri. L'elemosina d'un uomo è un
atto di carità, ma quella d'un fanciullo è insieme un atto di carità e una
carezza, capisci? É come se dalla sua mano cadessero insieme un soldo e un
fiore. Pensa che a te non manca nulla, ma che a loro manca tutto; che mentre tu
vuoi esser felice, a loro basta di non morire. Pensa che è un orrore che in
mezzo a tanti palazzi, per le vie dove passan carrozze e bambini vestiti di
velluto, ci siano delle donne, dei bimbi che non hanno da mangiare. Non aver da
mangiare, Dio mio! Dei ragazzi come te, buoni come te, intelligenti come te, che
in mezzo a una grande città non han da mangiare, come belve perdute in un
deserto! Oh mai più, Enrico, non passare mai più davanti a una madre che méndica
senza metterle un soldo nella mano!
TUA MADRE
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