MAGGIO
MAGGIO
I
bambini rachitici
5, venerdì
Oggi
ho fatto vacanza perché non stavo bene, e mia madre m'ha condotto con sé
all'istituto dei ragazzi rachitici, dov'è andata a raccomandare una bimba del
portinaio; ma non mi ha lasciato entrar nella scuola...
Non
hai capito perché, Enrico, non ti lasciai entrare? Per non mettere davanti a
quei disgraziati, lì nel mezzo della scuola, quasi come in mostra, un ragazzo
sano e robusto: troppe occasioni hanno già di trovarsi a dei paragoni dolorosi.
Che triste cosa! Mi venne su il pianto dal cuore a entrar là dentro. Erano una
sessantina, tra bambini e bambine... Povere ossa torturate! Povere mani, poveri
piedini rattrappiti e scontorti! Poveri corpicini contraffatti! Subito osservai
molti visi graziosi; degli occhi pieni d'intelligenza e di affetto: c'era un
visetto di bimba, col naso affilato e il mento aguzzo, che pareva una
vecchietta, ma aveva un sorriso d'una soavità celeste. Alcuni, visti davanti,
son belli, e paion senza difetti, ma si voltano... e vi danno una stretta
all'anima. C'era il medico, che li visitava. Li metteva ritti sui banchi, e
alzava i vestitini per toccare i ventri enfiati e le giunture grosse, ma non si
vergognavano punto, povere creature; si vedeva ch'eran bambini assuefatti a
essere svestiti, esaminati, rivoltati per tutti i versi. E pensare che ora son
nel periodo migliore della loro malattia, ché quasi non soffron più. Ma chi può
dire quello che soffrirono durante il primo deformarsi del corpo, quando col
crescere della loro infermità, vedevano diminuire l'affetto intorno a sé, poveri
bambini, lasciati soli per ore ed ore nell'angolo d'una stanza o d'un cortile,
mal nutriti, e a volte anche scherniti, o tormentati per mesi da bendaggi e da
apparecchi ortopedici inutili! Ora però, grazie alle cure, alla buona
alimentazione e alla ginnastica, molti migliorano. La maestra fece fare la
ginnastica. Era una pietà, a certi comandi, vederli distender sotto i banchi
tutte quelle gambe fasciate, strette fra le stecche, nocchierute, sformate,
delle gambe che si sarebbero coperte di baci! Parecchi non potevano alzarsi dal
banco, e rimanevan lì, col capo ripiegato sul braccio, accarezzando le stampelle
con la mano; altri, facendo la spinta delle braccia, si sentivan mancare il
respiro, e ricascavano a sedere, pallidi, ma sorridevano, per dissimulare
l'affanno. Ah! Enrico, voi altri che non pregiate la salute, e vi sembra così
poca cosa lo star bene! Io pensavo ai bei ragazzi forti e fiorenti, che le madri
portano in giro come in trionfo, superbe della loro bellezza, e mi sarei prese
tutte quelle povere teste, me le sarei strette tutte sul cuore, disperatamente,
avrei detto, se fossi stata sola: non mi movo più di qui; voglio consacrare la
vita a voi, servirvi, farvi da madre a tutti fino al mio ultimo giorno... E
intanto cantavano, cantavano con certe vocine esili, dolci, tristi, che andavano
all'anima, e la maestra avendoli lodati, si mostraron contenti; e mentre passava
tra i banchi, le baciavano le mani e le braccia, perché senton tanta gratitudine
per chi li benefica, e sono molto affettuosi. E anche hanno ingegno, quegli
angioletti; e studiano, mi disse la maestra. Una maestra giovane e gentile, che
ha sul viso pieno di bontà una certa espressione di mestizia, come un riflesso
delle sventure che essa accarezza e consola. Cara ragazza! Fra tutte le creature
umane che si guadagnan la vita col lavoro, non ce n'è una che se la guadagni più
santamente di te, figliuola mia.
TUA MADRE
Sacrificio.
9, martedì
Mia
madre è buona, e mia sorella Silvia è come lei, ha lo stesso cuore grande e
gentile. Io stavo copiando ieri sera una parte del racconto mensile Dagli
Appennini alle Ande, che il maestro ci ha dato a copiare un poco a tutti,
tanto è lungo; quando Silvia entrò in punta di piedi e mi disse in fretta e
piano: - Vieni con me dalla mamma. Li ho sentiti stamani che discorrevano: al
babbo è andato male un affare, era addolorato, la mamma gli faceva coraggio;
siamo nelle strettezze, capisci? non ci sono più denari. Il babbo diceva che
bisognerà fare dei sacrifici per rimettersi. Ora bisogna che ne facciamo anche
noi dei sacrifici, non è vero? Sei pronto? Bene, parlo alla mamma, e tu accenna
di sì e promettile sul tuo onore che farai tutto quello che dirò io. Detto
questo, mi prese per mano, e mi condusse da nostra madre, che stava cucendo,
tutta pensierosa; io sedetti da una parte del sofà, Silvia sedette dall'altra, e
subito disse: - Senti, mamma, ho da parlarti. Abbiamo da parlarti tutti e due. -
La mamma ci guardò meravigliata. E Silvia cominciò: - Il babbo è senza denari, è
vero? - Che dici? - rispose la mamma arrossendo, - Non è vero! Che ne sai tu?
Chi te l'ha detto? - Lo so, disse Silvia, risoluta. - Ebbene, senti, mamma;
dobbiamo fare dei sacrifici anche noi. Tu m'avevi promesso un ventaglio per la
fin di maggio, e Enrico aspettava la sua scatola di colori; non vogliamo più
nulla; non vogliamo che si sprechino i soldi; saremo contenti lo stesso, hai
capito? - La mamma tentò di parlare, ma Silvia disse: - No, sarà così. Abbiamo
deciso. E fin che il babbo non avrà dei denari, non vogliamo più né frutta né
altre cose; ci basterà la minestra, e la mattina a colazione mangeremo del pane;
così si spenderà meno a tavola, ché già spendiamo troppo, e noi ti promettiamo
che ci vedrai sempre contenti ad un modo. Non è vero, Enrico? - Io risposi di
sì. - Sempre contenti ad un modo, - ripeté Silvia, chiudendo la bocca alla mamma
con una mano; - e se c'è altri sacrifici da fare, o nel vestire, o in altro, noi
li faremo volentieri, e vendiamo anche i nostri regali: io do tutte le mie cose,
ti servo io di cameriera, non daremo più nulla a fare fuor di casa, lavorerò con
te tutto il giorno, farò tutto quello che vorrai, sono disposta a tutto! A
tutto! - esclamò gettando le braccia al collo a mia madre; - pur che il babbo e
la mamma non abbian più dispiaceri, pur ch'io torni a vedervi tutti e due
tranquilli, di buon umore come prima, in mezzo alla vostra Silvia e al vostro
Enrico, che vi vogliono tanto bene, che darebbero la loro vita per voi! - Ah! io
non vidi mai mia madre così contenta come a sentir quelle parole; non ci baciò
mai in fronte a quel modo, piangendo e ridendo, senza poter parlare. E poi
assicurò Silvia che aveva capito male, che non eravamo mica ridotti come essa
credeva, per fortuna, e cento volte ci disse grazie, e fu allegra tutta la sera,
fin che rientrò mio padre, a cui disse tutto. Egli non aperse bocca, povero
padre mio! Ma questa mattina sedendo a tavola... provai insieme un gran piacere
e una gran tristezza: io trovai sotto il tovagliolo la mia scatola, e Silvia ci
trovò il suo ventaglio.
L'incendio
11, giovedì
Questa
mattina io avevo finito di copiare la mia parte del racconto Dagli Appennini
alle Ande, e stavo cercando un tema per la composizione libera che ci diede
da fare il maestro, quando udii un vocìo insolito per le scale, e poco dopo
entrarono in casa due pompieri, i quali domandarono a mio padre il permesso di
visitar le stufe e i camini, perché bruciava un fumaiolo sui tetti, e non si
capiva di chi fosse. Mio padre disse: - Facciano pure, - e benché non avessimo
fuoco acceso da nessuna parte, essi cominciarono a girar per le stanze e a
metter l'orecchio alle pareti, per sentire se rumoreggiasse il foco dentro alle
gole che vanno su agli altri piani della casa.
E mio padre mi disse, mentre giravan per le stanze: - Enrico, ecco un tema per
la tua composizione: i pompieri. Provati un po' a scrivere quello che ti
racconto. Io li vidi all'opera due anni fa, una sera che uscivo dal teatro
Balbo, a notte avanzata. Entrando in via Roma, vidi una luce insolita, e un'onda
di gente che accorreva: una casa era in fuoco: lingue di fiamma e nuvoli di fumo
rompevan dalle finestre e dal tetto; uomini e donne apparivano ai davanzali e
sparivano, gettando grida disperate, c'era gran tumulto davanti al portone; la
folla gridava: - Brucian vivi! Soccorso! I pompieri! - Arrivò in quel punto una
carrozza, ne saltaron fuori quattro pompieri, i primi che s'eran trovati al
Municipio, e si slanciarono dentro alla casa. Erano appena entrati, che si vide
una cosa orrenda: una donna s'affacciò urlando a una finestra del terzo piano,
s'afferrò alla ringhiera, la scavalcò, e rimase afferrata così, quasi sospesa
nel vuoto, con la schiena in fuori, curva sotto il fumo e le fiamme che fuggendo
dalla stanza le lambivan quasi la testa. La folla gettò un grido di
raccapriccio. I pompieri, arrestati per isbaglio al secondo piano dagli
inquilini atterriti, avevan già sfondato un muro e s'eran precipitati in una
camera; quando cento grida li avvertirono: - Al terzo piano! Al terzo piano! -
Volarono al terzo piano. Qui era un rovinio d'inferno, travi di tetto che
crollavano, corridoi pieni di fiamme, un fumo che soffocava. Per arrivare alle
stanze dov'eran gl'inquilini rinchiusi, non restava altra via che passar pel
tetto.
Si lanciaron subito su, e un minuto dopo si vide come un fantasma nero saltar
sui coppi, tra il fumo. Era il caporale, arrivato il primo. Ma per andare dalla
parte del tetto che corrispondeva al quartierino chiuso dal fuoco, gli bisognava
passare sopra un ristrettissimo spazio compreso tra un abbaino e la grondaia;
tutto il resto fiammeggiava, e quel piccolo tratto era coperto di neve e di
ghiaccio, e non c'era dove aggrapparsi. - É impossibile che passi! - gridava la
folla di sotto. Il caporale s'avanzò sull'orlo del tetto: - tutti
rabbrividirono, e stettero a guardar col respiro sospeso: - passò: - un immenso
evviva salì al cielo. Il caporale riprese la corsa, e arrivato al punto
minacciato, cominciò a spezzare furiosamente a colpi d'accetta coppi, travi,
correntini, per aprirsi una buca da scender dentro. Intanto la donna era sempre
sospesa fuor della finestra, il fuoco le infuriava sul capo, un minuto ancora, e
sarebbe precipitata nella via. La buca fu aperta: si vide il caporale levarsi la
tracolla e calarsi giù; gli altri pompieri, sopraggiunti, lo seguirono. Nello
stesso momento un'altissima scala Porta, arrivata allora, s'appoggiò al
cornicione della casa, davanti alle finestre da cui uscivano fiamme e urli da
pazzi. Ma si credeva che fosse tardi. - Nessuno si salva più, - gridavano. - I
pompieri bruciano. - É finita. - Son morti. - All'improvviso si vide apparire
alla finestra della ringhiera la figura nera del caporale, illuminata di sopra
in giù dalle fiamme, - la donna gli si avvinghiò al collo; - egli l'afferrò alla
vita con tutt'e due le braccia, la tirò su, la depose dentro alla stanza. La
folla mise un grido di mille voci, che coprì il fracasso dell'incendio. Ma e gli
altri? e discendere? La scala, appoggiata al tetto davanti a un'altra finestra,
distava dal davanzale un buon tratto. Come avrebbero potuto attaccarvisi? Mentre
questo si diceva, uno dei pompieri si fece fuori della finestra, mise il piede
destro sul davanzale e il sinistro sulla scala, e così ritto per aria,
abbracciati ad uno ad uno gli inquilini, che gli altri gli porgevan di dentro,
li porse a un compagno, ch'era salito su dalla via, e che, attaccatili bene ai
pioli, li fece scendere, l'un dopo l'altro, aiutati da altri pompieri di sotto.
Passò prima la donna della ringhiera, poi una bimba, un'altra donna, un vecchio.
Tutti eran salvi. Dopo il vecchio, scesero i pompieri rimasti dentro; ultimo a
scendere fu il caporale, che era stato il primo ad accorrere. La folla li
accolse tutti con uno scoppio d'applausi; ma quando comparve l'ultimo,
l'avanguardia dei salvatori, quello che aveva affrontato innanzi agli altri
l'abisso, quello che sarebbe morto, se uno avesse dovuto morire, la folla lo
salutò come un trionfatore, gridando e stendendo le braccia con uno slancio
affettuoso d'ammirazione e di gratitudine, e in pochi momenti il suo nome oscuro
- Giuseppe Robbino - suonò su mille bocche... Hai capito? Quello è coraggio, il
coraggio del cuore, che non ragiona, che non vacilla, che va diritto cieco
fulmineo dove sente il grido di chi muore. Io ti condurrò un giorno agli
esercizi dei pompieri, e ti farò vedere il caporale Robbino; perché saresti
molto contento di conoscerlo, non è vero?
Risposi di sì.
- Eccolo qua, - disse mio padre.
Io mi voltai di scatto. I due pompieri, terminata la visita, attraversavan la
stanza per uscire.
Mio padre m'accennò il più piccolo, che aveva i galloni, e mi disse: - Stringi
la mano al caporale Robbino.
Il caporale si fermò e mi porse la mano, sorridendo: io gliela strinsi; egli mi
fece un saluto ed uscì.
- E ricordatene bene, - disse mio padre, - perché delle migliaia di mani che
stringerai nella vita, non ce ne saranno forse dieci che valgono la sua.
Dagli Appennini alle Ande
Racconto mensile
Molti
anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d'un operaio, andò da
Genova in America, da solo, per cercare sua madre.
Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della
Repubblica Argentina, per mettersi al servizio di qualche casa ricca, e
guadagnar così in poco tempo tanto da rialzare la famiglia, la quale, per
effetto di varie disgrazie, era caduta nella povertà e nei debiti. Non sono
poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio per quello scopo, e
che grazie alle grandi paghe che trova laggiù la gente di servizio, ritornano in
patria a capo di pochi anni con qualche migliaio di lire. La povera madre aveva
pianto lacrime di sangue al separarsi dai suoi figliuoli, l'uno di diciott'anni
e l'altro di undici; ma era partita con coraggio, e piena di speranza. Il
viaggio era stato felice: arrivata appena a Buenos Aires, aveva trovato subito,
per mezzo d'un bottegaio genovese, cugino di suo marito, stabilito là da molto
tempo, una buona famiglia argentina, che la pagava molto e la trattava bene. E
per un po' di tempo aveva mantenuto coi suoi una corrispondenza regolare.
Com'era stato convenuto fra loro, il marito dirigeva le lettere al cugino, che
le recapitava alla donna, e questa rimetteva le risposte a lui, che le spediva a
Genova, aggiungendovi qualche riga di suo. Guadagnando ottanta lire al mese e
non spendendo nulla per sé, mandava a casa ogni tre mesi una bella somma, con la
quale il marito, che era galantuomo, andava pagando via via i debiti più
urgenti, e riguadagnando così la sua buona reputazione. E intanto lavorava ed
era contento dei fatti suoi, anche per la speranza che la moglie sarebbe
ritornata fra non molto tempo, perché la casa pareva vuota senza di lei, e il
figliuolo minore in special modo, che amava moltissimo sua madre, si
rattristava, non si poteva rassegnare alla sua lontananza.
Ma trascorso un anno dalla partenza, dopo una lettera breve nella quale essa
diceva di star poco bene di salute, non ne ricevettero più. Scrissero due volte
al cugino; il cugino non rispose. Scrissero alla famiglia argentina, dove la
donna era a servire; ma non essendo forse arrivata la lettera perché avean
storpiato il nome sull'indirizzo, non ebbero risposta. Temendo d'una disgrazia,
scrissero al Consolato italiano di Buenos Aires, che facesse fare delle
ricerche; e dopo tre mesi fu risposto loro dal Console che, nonostante l'avviso
fatto pubblicare dai giornali, nessuno s'era presentato, neppure a dare notizie.
E non poteva accadere altrimenti, oltre che per altre ragioni, anche per questa:
Che con l'idea di salvare il decoro dei suoi, ché le pareva di macchiarlo a far
la serva, la buona donna non aveva dato alla famiglia argentina il suo vero
nome. Altri mesi passarono, nessuna notizia. Padre e figliuolo erano costernati;
il più piccolo, oppresso da una tristezza che non poteva vincere. Che fare? A
chi ricorrere? La prima idea del padre era stata di partire, d'andare a cercare
sua moglie in America. Ma e il lavoro? Chi avrebbe mantenuto i suoi figliuoli? E
neppure avrebbe potuto partire il figliuol maggiore, che cominciava appunto
allora a guadagnar qualche cosa, ed era necessario alla famiglia. E in questo
affanno vivevano, ripetendo ogni giorno gli stessi discorsi dolorosi, o
guardandosi l'un l'altro, in silenzio. Quando una sera Marco, il più piccolo,
uscì a dire risolutamente: - Ci vado io in America a cercar mia madre. - Il
padre crollò il capo, con tristezza, e non rispose. Era un pensiero affettuoso,
ma una cosa impossibile. A tredici anni, solo, fare un viaggio in America, che
ci voleva un mese per andarci! Ma il ragazzi insistette, pazientemente.
Insistette quel giorno, il giorno dopo, tutti i giorni con una grande pacatezza,
ragionando col buon senso d'un uomo. - Altri ci sono andati, - diceva - e più
piccoli di me. Una volta che son sul bastimento, arrivo là come un altro.
Arrivato là, non ho che a cercare la bottega del cugino. Ci sono tanti italiani,
qualcheduno m'insegnerà la strada. Trovato il cugino, e trovata mia madre, se
non trovo lui vado dal Console, cercherò la famiglia argentina. Qualunque cosa
accada, laggiù c'è del lavoro per tutti; troverò del lavoro anch'io, almeno per
guadagnar tanto da ritornare a casa. - E così, a poco a poco, riuscì quasi a
persuadere suo padre. Suo padre lo stimava, sapeva che aveva giudizio e
coraggio, che era assuefatto alle privazioni e ai sacrifici, e che tutte queste
buone qualità avrebbero preso doppia forza nel suo cuore per quel santo scopo di
trovar sua madre, ch'egli adorava. Si aggiunse pure che un Comandante di
piroscafo, amico d'un suo conoscente, avendo inteso parlar della cosa, s'impegnò
di fargli aver gratis un biglietto di terza classe per l'Argentina. E allora,
dopo un altro po' di esitazione, il padre acconsentì, il viaggio fu deciso. Gli
empirono una sacca di panni, gli misero in tasca qualche scudo, gli diedero
l'indirizzo del cugino, e una bella sera del mese di aprile lo imbarcarono. -
Figliuolo, Marco mio, - gli disse il padre dandogli l'ultimo bacio, con le
lacrime agli occhi, sopra la scala del piroscafo che stava per partire: - fatti
coraggio. Parti per un santo fine e Dio t'aiuterà.
Povero
Marco! Egli aveva il cuor forte e preparato alle più dure prove per quel
viaggio; ma quando vide sparire all'orizzonte la sua bella Genova, e si trovò in
alto mare, su quel grande piroscafo affollato di contadini emigranti, solo, non
conosciuto da alcuno, con quella piccola sacca che racchiudeva tutta la sua
fortuna, un improvviso scoraggiamento lo assalì. Per due giorni stette
accucciato come un cane a prua, non mangiando quasi, oppresso da un gran bisogno
di piangere. Ogni sorta di tristi pensieri gli passava per la mente, e il più
triste, il più terribile era il più ostinato a tornare: il pensiero che sua
madre fosse morta. Nei suoi sogni rotti e pensosi egli vedeva sempre la faccia
d'uno sconosciuto che lo guardava in aria di compassione e poi gli diceva
all'orecchio: - Tua madre è morta. - E allora si svegliava soffocando un grido.
Nondimeno, passato lo stretto di Gibilterra, alla prima vista dell'Oceano
Atlantico, riprese un poco d'animo e di speranza. Ma fu un breve sollievo.
Quell'immenso mare sempre eguale, il calore crescente, la tristezza di tutta
quella povera gente che lo circondava, il sentimento della propria solitudine
tornarono a buttarlo giù. I giorni, che si succedevano vuoti e monotoni, gli si
confondevano nella memoria, come accade ai malati. Gli parve d'esser in mare da
un anno. E ogni mattina, svegliandosi, provava un nuovo stupore di esser là
solo, in mezzo a quell'immensità d'acqua, in viaggio per l'America. I bei pesci
volanti che venivano ogni tanto a cascare sul bastimento, quei meravigliosi
tramonti dei tropici, con quelle enormi nuvole color di bragia e di sangue, e
quelle fosforescenze notturne che fanno parer l'Oceano tutto acceso come un mare
di lava, non gli facevan l'effetto di cose reali, ma di prodigi veduti in sogno.
Ebbe delle giornate di cattivo tempo, durante le quali restò chiuso
continuamente nel dormitorio, dove tutto ballava e rovinava, in mezzo a un coro
spaventevole di lamenti e d'imprecazioni; e credette che fosse giunta la sua
ultima ora. Ebbe altre giornate di mare quieto e giallastro, di caldura
insopportabile, di noia infinita; ore interminabili e sinistre, durante le quali
i passeggeri spossati, distesi immobili sulle tavole, parevan tutti morti. E il
viaggio non finiva mai: mare e cielo, cielo e mare, oggi come ieri, domani come
oggi, - ancora, - sempre, eternamente. Ed egli per lunghe ore stava appoggiato
al parapetto a guardar quel mare senza fine, sbalordito, pensando vagamente a
sua madre, fin che gli occhi gli si chiudevano e il capo gli cascava dal sonno;
e allora rivedeva quella faccia sconosciuta che lo guardava in aria di pietà, e
gli ripeteva all'orecchio: - Tua madre è morta! - e a quella voce si risvegliava
in sussulto, per ricominciare a sognare a occhi aperti e a guardar l'orizzonte
immutato.
Ventisette giorni durò il viaggio! Ma gli ultimi furono i migliori. Il tempo era
bello e l'aria fresca. Egli aveva fatto conoscenza con un buon vecchio lombardo,
che andava in America a trovare il figliuolo, coltivatore di terra vicino alla
città di Rosario; gli aveva detto tutto di casa sua, e il vecchio gli ripeteva
ogni tanto, battendogli una mano sulla nuca: - Coraggio, bagai, tu
troverai tua madre sana e contenta. - Quella compagnia lo riconfortava, i suoi
presentimenti s'erano fatti di tristi lieti. Seduto a prua, accanto al vecchio
contadino che fumava la pipa, sotto un bel cielo stellato, in mezzo a gruppi
d'emigranti che cantavano, egli si rappresentava cento volte al pensiero il suo
arrivo a Buenos Aires, si vedeva in quella certa strada, trovava la bottega, si
lanciava incontro al cugino: - Come sta mia madre? Dov'è? Andiamo subito! -
Andiamo subito; - correvano insieme, salivano una scala, s'apriva una porta... E
qui il suo soliloquio muto s'arrestava, la sua immaginazione si perdeva in un
sentimento d'inesprimibile tenerezza, che gli faceva tirar fuori di nascosto una
piccola medaglia che portava al collo, e mormorare, baciandola, le sue orazioni.
Il
ventisettesimo giorno dopo quello della partenza, arrivarono. Era una bella
aurora rossa di maggio quando il piroscafo gittava l'àncora nell'immenso fiume
della Plata, sopra una riva del quale si stende la vasta città di Buenos Aires,
capitale della Repubblica Argentina. Quel tempo splendido gli parve di buon
augurio. Era fuor di sé dalla gioia e dall'impazienza. Sua madre era a poche
miglia di distanza da lui! Tra poche ore l'avrebbe veduta! Ed egli si trovava in
America, nel nuovo mondo, e aveva avuto l'ardimento di venirci so]o! Tutto quel
lunghissimo viaggio gli pareva allora che fosse passato in un nulla. Gli pareva
d'aver volato, sognando, e di essersi svegliato in quel punto. Ed era così
felice, che quasi non si stupì né si afflisse, quando si frugò nelle tasche, e
non ci trovò più uno dei due gruzzoli in cui aveva diviso il suo piccolo tesoro,
per esser più sicuro di non perdere tutto. Gliel'avevan rubato, non gli restavan
più che poche lire; ma che gli importava, ora ch'era vicino a sua madre. Con la
sua sacca alla mano scese insieme a molti altri italiani in un vaporino che li
portò fino a poca distanza dalla riva, calò dal vaporino in una barca che
portava il nome di Andrea Doria, fu sbarcato al molo, salutò il suo
vecchio amico lombardo, e s'avviò a lunghi passi verso la città.
Arrivato all'imboccatura della prima via fermò un uomo che passava e lo pregò di
indicargli da che parte dovesse prendere per andar in via de los Artes.
Aveva fermato per l'appunto un operaio italiano. Questi lo guardò con curiosità
e gli domandò se sapeva leggere. Il ragazzo accennò di sì. - Ebbene, - gli disse
l'operaio, indicandogli la via da cui egli usciva; - va su sempre diritto,
leggendo i nomi delle vie a tutte le cantonate; finirai con trovare la tua. - Il
ragazzo lo ringraziò e infilò la via che gli s'apriva davanti.
Era una via diritta e sterminata, ma stretta; fiancheggiata da case basse e
bianche, che pareva tanti villini; piena di gente, di carrozze, di grandi carri,
che facevano uno strepito assordante; e qua e là spenzolavano enormi bandiere di
vari colori, con su scritto a grossi caratteri l'annunzio di partenze di
piroscafi per città sconosciute. A ogni tratto di cammino, voltandosi a destra e
a sinistra, egli vedeva due altre vie che fuggivano diritte a perdita d'occhio,
fiancheggiate pure da case basse e bianche, e piene di gente e di carri, e
tagliate in fondo dalla linea diritta della sconfinata pianura americana, simile
all'orizzonte del mare. La città gli pareva infinita; gli pareva che si potesse
camminar per giornate e per settimane vedendo sempre di qua e di là altre vie
come quelle, e che tutta l'America ne dovesse esser coperta. Guardava
attentamente i nomi delle vie: dei nomi strani che stentava a leggere. A ogni
nuova via, si sentiva battere il cuore, pensando che fosse la sua. Guardava
tutte le donne con l'idea di incontrare sua madre. Ne vide una davanti a sé, che
gli diede una scossa al sangue: la raggiunse, la guardò: era una negra. E
andava, andava, affrettando il passo. Arrivò a un crocicchio, lesse, e restò
come inchiodato sul marciapiede Era la vita delle Arti. Svoltò, vide il numero
117 dovette fermarsi per riprender respiro. E disse tra sé: - O madre mia! madre
mia! É proprio vero che ti vedrò a momenti! - Corse innanzi, arrivò a una
piccola bottega di merciaio. Era quella. S'affacciò. Vide una donna coi capelli
grigi e gli occhiali.
- Che volete, ragazzo? - gli domandò quella, in spagnuolo.
- Non è questa, - disse, stentando a metter fuori la voce, - la bottega di
Francesco Merelli?
- Francesco Merelli è morto, - rispose la donna in italiano.
Il ragazzo ebbe l'impressione d'una percossa nel petto.
- Quando morto?
- Eh, da un pezzo, - rispose la donna; - da mesi. Fece cattivi affari, scappò.
Dicono che sia andato a Bahia Blanca, molto lontano di qui. E morì appena
arrivato. La bottega è mia.
Il ragazzo impallidì.
Poi disse rapidamente: - Merelli conosceva mia madre, mia madre era qua a
servire dal signor Mequinez. Egli solo poteva dirmi dov'era. Io sono venuto in
America a cercar mia madre. Merelli le mandava le lettere. Io ho bisogno di
trovar mia madre.
- Povero figliuolo, - rispose la donna, - io non so. Posso domandare al ragazzo
del cortile. Egli conosceva il giovane che faceva commissioni per Merelli. Può
darsi che sappia dir qualche cosa.
Andò in fondo alla bottega e chiamò il ragazzo, che venne subito. - Dimmi un
poco, - gli domandò la bottegaia; - ti ricordi che il giovane di Merelli andasse
qualche volta a portar delle lettere a una donna di servizio, in casa di
figli del paese?
- Dal signor Mequinez, - rispose il ragazzo, sì signora, qualche volta. In fondo
a via delle Arti.
- Ah, signora, grazie! - gridò Marco. - Mi dica il numero... non lo sa? Mi
faccia accompagnare, - accompagnami tu subito, ragazzo; - io ho ancora dei
soldi.
E disse questo con tanto calore, che senz'aspettar la preghiera della donna, il
ragazzo rispose: - andiamo; - e uscì pel primo a passi lesti.
Quasi correndo, senza dire una parola, andarono fino in fondo alla via
lunghissima, infilarono l'andito d'entrata d'una piccola casa bianca, e si
fermarono davanti a un bel cancello di ferro, da cui si vedeva un cortiletto,
pieno di vasi di fiori. Marco diede una strappata al campanello.
Comparve una signorina.
- Qui sta la famiglia Mequinez, non è vero? - domandò ansiosamente il ragazzo.
- Ci stava, - rispose la signorina, pronunziando l'italiano alla spagnuola. -
Ora ci stiamo noi, Zeballos.
- E dove sono andati i Mequinez? - domandò Marco, col batticuore.
- Sono andati a Cordova.
- Cordova! - esclamò Marco. - Dov'è Cordova? E la persona di servizio che
avevano? la donna, mia madre! La donna di servizio era mia madre! Hanno condotto
via anche mia madre?
La signorina lo guardò e disse: - Non so. Lo saprà forse mio padre, che li ha
conosciuti quando partirono. Aspettate un momento.
Scappò e tornò poco dopo con suo padre, un signore alto, con la barba grigia.
Questi guardò fisso un momento quel tipo simpatico di piccolo marinaio genovese,
coi capelli biondi e il naso aquilino, e gli domandò in cattivo italiano: - Tua
madre è genovese?
Marco rispose di sì.
- Ebbene la donna di servizio genovese è andata con loro, lo so di certo.
- Dove sono andati?
- A Cordova, una città.
Il ragazzo mise un sospiro; poi disse con rassegnazione: - Allora... andrò a
Cordova.
- Ah pobre Niño!
- esclamò il signore, guardandolo in aria di pietà. - Povero ragazzo! É a
centinaia di miglia di qua, Cordova.
Marco diventò pallido come un morto, e s'appoggiò con una mano alla cancellata.
- Vediamo, vediamo, - disse allora il signore, mosso a compassione, aprendo la
porta, - vieni dentro un momento, vediamo un po' se si può far qualche cosa. -
Sedette, gli diè da sedere, gli fece raccontar la sua storia, lo stette a
sentire molto attento, rimase un pezzo pensieroso; poi gli disse risolutamente:
- Tu non hai denari, non è vero?
- Ho ancora... poco, - rispose Marco.
Il signore pensò altri cinque minuti, poi si mise a un tavolino, scrisse una
lettera, la chiuse, e porgendola al ragazzo, gli disse: - Senti, italianito.
Va' con questa lettera alla Boca. É una piccola città mezza genovese, a due ore
di strada di qua. Tutti ti sapranno indicare il cammino. Va' là e cerca di
questo signore, a cui è diretta la lettera, e che è conosciuto da tutti.
Portagli questa lettera. Egli ti farà partire domani per la città di Rosario, e
ti raccomanderà a qualcuno lassù, che penserà a farti proseguire il viaggio fino
a Cordova, dove troverai la famiglia Mequinez e tua madre. Intanto, piglia
questo. - E gli mise in mano qualche lira. - Va', e fatti coraggio; qui hai da
per tutto dei compaesani, non rimarrai abbandonato. Adios.
Il ragazzo gli disse: - Grazie, - senza trovar altre parole, uscì con la sua
sacca, e congedatosi dalla sua piccola guida, si mise lentamente in cammino
verso la Boca, pieno di tristezza e di stupore, a traverso alla grande città
rumorosa.
Tutto quello che gli accadde da quel momento fino alla sera del giorno appresso
gli rimase poi nella memoria confuso ed incerto come una fantasticheria di
febbricitante, tanto egli era stanco, sconturbato, avvilito. E il giorno
appresso, all'imbrunire, dopo aver dormito la notte in una stanzuccia d'una casa
della Boca, accanto a un facchino del porto, - dopo aver passata quasi tutta la
giornata, seduto sopra un mucchio di travi, e come trasognato, in faccia a
migliaia di bastimenti, di barconi e di vaporini, - si trovava a poppa d'una
grossa barca a vela, carica di frutte, che partiva per la città di Rosario,
condotta da tre robusti genovesi abbronzati dal sole; la voce dei quali, e il
dialetto amato che parlavano gli rimise un po' di conforto nel cuore.
Partirono, e il viaggio durò tre giorni e quattro notti, e fu uno stupore
continuo per il piccolo viaggiatore. Tre giorni e quattro notti su per quel
meraviglioso fiume Paranà, rispetto al quale il nostro grande Po non è che un
rigagnolo, e la lunghezza dell'Italia, quadruplicata, non raggiunge quella del
suo corso. Il barcone andava lentamente a ritroso di quella massa d'acqua
smisurata. Passava in mezzo a lunghe isole, già nidi di serpenti e di tigri,
coperte d'aranci e di salici, simili a boschi galleggianti; e ora infilava
stretti canali, da cui pareva che non potesse più uscire; ora sboccava in vaste
distese d'acque, dell'aspetto di grandi laghi tranquilli; poi daccapo fra le
isole, per i canali intricati d'un arcipelago, in mezzo a mucchi enormi di
vegetazione. Regnava un silenzio profondo. Per lunghi tratti, le rive e le acque
solitarie e vastissime davan l'immagine d'un fiume sconosciuto, in cui quella
povera vela fosse la prima al mondo ad avventurarsi. Quanto più s'avanzavano, e
tanto più quel mostruoso fiume lo sgomentava. Egli immaginava che sua madre si
trovasse alle sorgenti, e che la navigazione dovesse durare degli anni. Due
volte al giorno mangiava un po' di pane e di carne salata coi barcaioli, i
quali, vedendolo triste, non gli rivolgevan mai la parola. La notte dormiva
sopra coperta, e si svegliava ogni tanto, bruscamente, stupito della luce
limpidissima della luna che imbiancava le acque immense e le rive lontane; e
allora il cuore gli si serrava. - Cordova! - Egli ripeteva quel nome: - Cordova!
- come il nome d'una di quelle città misteriose, delle quali aveva inteso
parlare nelle favole. Ma poi pensava: - Mia madre è passata di qui, ha visto
queste isole, quelle rive, - e allora non gli parevan più tanto strani e
solitari quei luoghi in cui lo sguardo di sua madre s'era posato... La notte,
uno dei barcaiuoli cantava. Quella voce gli rammentava le canzoni di sua madre,
quando l'addormentava bambino. L'ultima notte, all'udir quel canto, singhiozzò.
Il barcaiuolo s'interruppe. Poi gli gridò: - Animo, animo, figioeu! Che
diavolo! Un genovese che piange perché è lontano da casa! I genovesi girano il
mondo gloriosi e trionfanti! - E a quelle parole egli si riscosse, sentì la voce
del sangue genovese, e rialzò la fronte con alterezza, battendo il pugno sul
timone. - Ebbene, si - disse tra sé, - dovessi anch'io girare tutto il mondo,
viaggiare ancora per anni e anni, e fare delle centinaia di miglia a piedi, io
andrò avanti, fin che troverò mia madre. Dovessi arrivare moribondo, e cascar
morto ai suoi piedi! Pur che io la riveda una volta! Coraggio! - E con quest'animo
arrivò allo spuntar d'un mattino rosato e freddo di fronte alla città di
Rosario, posta sulla riva alta del Paranà, dove si specchiavan nelle acque le
antenne imbandierate di cento bastimenti d'ogni paese.
Poco
dopo sbarcato, salì alla città, con la sua sacca alla mano, a cercare un signore
argentino per cui il suo protettore della Boca gli aveva rimesso un biglietto di
visita con qualche parola di raccomandazione. Entrando in Rosario gli parve
d'entrare in una città già conosciuta. Erano quelle vie interminabili, diritte,
fiancheggiate di case basse e bianche, attraversate in tutte le direzioni, al
disopra dei tetti, da grandi fasci di fili telegrafici e telefonici, che
parevano enormi ragnateli; e un gran trepestio di gente, di cavalli, di carri.
La testa gli si confondeva: credette quasi di rientrare a Buenos Aires, e di
dover cercare un'altra volta il cugino. Andò attorno per quasi un'ora, svoltando
e risvoltando, e sembrandogli sempre di tornar nella medesima via; e a furia di
domandare, trovò la casa del suo nuovo protettore. Tirò il campanello.
S'affacciò alla porta un grosso uomo biondo, arcigno, che aveva l'aria d'un
fattore, e che gli domandò sgarbatamente, con pronunzia straniera:
- Che vuoi?
Il ragazzo disse il nome del padrone.
- Il padrone, - rispose il fattore, - è partito ieri sera per Buenos Aires con
tutta la sua famiglia.
Il ragazzo restò senza parola.
Poi balbettò: - Ma io... non ho nessuno qui! Sono solo! - E porse il biglietto.
Il fattore lo prese, lo lesse e disse burberamente: - Non so che farci. Glielo
darò fra un mese, quando ritornerà.
- Ma io, io son solo! io ho bisogno! - esclamò il ragazzo, con voce di
preghiera.
- Eh! andiamo, - disse l'altro; - non ce n'è ancora abbastanza della gramigna
del tuo paese a Rosario! Vattene un po' a mendicare in Italia. - E gli chiuse il
cancello sulla faccia.
Il ragazzo restò là come impietrato.
Poi riprese lentamente la sua sacca, ed uscì, col cuore angosciato, con la mente
in tumulto, assalito a un tratto da mille pensieri affannosi. Che fare? dove
andare? Da Rosario a Cordova c'era una giornata di strada ferrata. Egli non
aveva più che poche lire. Levato quello che gli occorreva di spendere quel
giorno, non gli sarebbe rimasto quasi nulla. Dove trovare i denari per pagarsi
il viaggio? Poteva lavorare. Ma come, a chi domandar lavoro? Chieder
l'elemosina! Ah! no, essere respinto, insultato, umiliato come poc'anzi, no,
mai, mai più, piuttosto morire! - E a quell'idea, e al riveder davanti a sé la
lunghissima via che si perdeva lontano nella pianura sconfinata, si sentì
fuggire un'altra volta il coraggio, gettò la sacca sul marciapiede, vi sedette
su con le spalle al muro, e chinò il viso tra le mani, senza pianto, in un
atteggiamento desolato.
La gente l'urtava coi piedi passando; i carri empivan la via di rumore; alcuni
ragazzi si fermarono a guardarlo. Egli rimase un pezzo così.
Quando fu scosso da una voce che gli disse tra in italiano e in lombardo: - Che
cos'hai, ragazzetto?
Alzò il viso a quelle parole, e subito balzò in piedi gettando un'esclamazione
di meraviglia: - Voi qui!
Era il vecchio contadino lombardo, col quale aveva fatto amicizia nel viaggio.
La meraviglia del contadino non fu minore della sua. Ma il ragazzo non gli
lasciò il tempo d'interrogarlo, e gli raccontò rapidamente i casi suoi. - Ora
son senza soldi, ecco; bisogna che lavori; trovatemi voi del lavoro da poter
mettere insieme qualche lira; io faccio qualunque cosa; porto roba, spazzo le
strade, posso far commissioni, anche lavorare in campagna; mi contento di
campare di pan nero; ma che possa partir presto, che possa trovare una volta mia
madre, fatemi questa carità, del lavoro, trovatemi voi del lavoro, per amor di
Dio, che non ne posso più!
- Diamine, diamine, - disse il contadino, guardandosi attorno e grattandosi il
mento. - Che storia è questa!... Lavorare... è presto detto. Vediamo un po'. Che
non ci sia mezzo di trovar trenta lire fra tanti patriotti?
Il ragazzo lo guardava, confortato da un raggio di speranza.
- Vieni con me, - gli disse il contadino.
- Dove? - domandò il ragazzo, ripigliando la sacca.
- Vieni con me.
Il contadino si mosse, Marco lo seguì, fecero un lungo tratto di strada insieme,
senza parlare. Il contadino si fermò alla porta d'un'osteria che aveva per
insegna una stella e scritto sotto: - La estrella de Italia; - mise il
viso dentro e voltandosi verso il ragazzo disse allegramente: - Arriviamo in
buon punto. - Entrarono in uno stanzone, dov'eran varie tavole, e molti uomini
seduti, che bevevano, parlando forte. Il vecchio lombardo s'avvicinò alla prima
tavola, e dal modo come salutò i sei avventori che ci stavano intorno, si capiva
ch'era stato in loro compagnia fino a poco innanzi. Erano rossi in viso e
facevan sonare bicchieri, vociando e ridendo.
- Camerati, - disse senz'altro il lombardo, restando in piedi, e presentando
Marco; - c'è qui un povero ragazzo nostro patriotta, che è venuto solo da
Genova a Buenos Aires a cercare sua madre. A Buenos Aires gli dissero: - Qui non
c'è, è a Cordova. - Viene in barca a Rosario, tre dì e tre notti, con due righe
di raccomandazione; presenta la carta: gli fanno una figuraccia. Non ha la croce
d'un centesimo. É qui solo come un disperato. É un bagai pieno di cuore.
Vediamo un poco. Non ha da trovar tanto da pagare il biglietto per andare a
Cordova a trovar sua madre? L'abbiamo da lasciar qui come un cane?
- Mai al mondo, perdio! - Mai non sarà detto questo! - gridarono tutti insieme,
battendo il pugno sul tavolo. - Un patriotta nostro! - Vieni qua,
piccolino. - Ci siamo noi, gli emigranti! - Guarda che bel monello. - Fuori dei
quattrini, camerati. - Bravo! Venuto solo! Hai del fegato! - Bevi un sorso,
patriotta. - Ti manderemo da tua madre, non pensare. - E uno gli dava un
pizzicotto alla guancia, un altro gli batteva la mano sulla spalla, un terzo lo
liberava dalla sacca; altri emigranti s'alzarono dalle tavole vicine e
s'avvicinarono; la storia del ragazzo fece il giro dell'osteria; accorsero dalla
stanza accanto tre avventori argentini; e in meno di dieci minuti il contadino
lombardo che porgeva il cappello, ci ebbe dentro quarantadue lire. - Hai Visto,
- disse allora, voltandosi verso il ragazzo, - come si fa presto in America? -
Bevi - gli gridò un altro, porgendogli un bicchiere di vino: - Alla salute di
tua madre! - Tutti alzarono i bicchieri. - E Marco ripeté: - Alla salute di
mia... - Ma un singhiozzo di gioia gli chiuse la gola, e rimesso il bicchiere
sulla tavola, si gettò al collo del suo vecchio.
La mattina seguente, allo spuntare del giorno, egli era già partito per Cordova,
ardito e ridente, pieno di presentimenti felici. Ma non c'è allegrezza che regga
a lungo davanti a certi aspetti sinistri della natura. Il tempo era chiuso e
grigio; il treno, presso che vuoto, correva a traverso a un'immensa pianura
priva d'ogni segno d'abitazione. Egli si trovava solo in un vagone lunghissimo,
che somigliava a quelli dei treni per i feriti. Guardava a destra, guardava a
sinistra, e non vedeva che una solitudine senza fine, sparsa di piccoli alberi
deformi, dai tronchi e dai rami scontorti, in atteggiamenti non mai veduti,
quasi d'ira e d'angoscia; una vegetazione scura, rada e triste, che dava alla
pianura l'apparenza d'uno sterminato cimitero. Sonnecchiava mezz'ora, tornava a
guardare: era sempre lo stesso spettacolo. Le stazioni della strada ferrata eran
solitarie, come case di eremiti; e quando il treno si fermava, non si sentiva
una voce; gli pareva di trovarsi solo in un treno, perduto, abbandonato in mezzo
a un deserto. Gli sembrava che ogni stazione dovesse essere l'ultima, e che
s'entrasse dopo quella nelle terre misteriose e spaurevoli dei selvaggi. Una
brezza gelata gli mordeva il viso. Imbarcandolo a Genova sul finir d'aprile, i
suoi non avevan pensato che in America egli avrebbe trovato l'inverno, e l'avevan
vestito da estate. Dopo alcune ore, incominciò a soffrire il freddo, e col
freddo, la stanchezza dei giorni passati, pieni di commozioni violente, e delle
notti insonni e travagliate. Si addormentò, dormì lungo tempo, si svegliò
intirizzito; si sentiva male. E allora gli prese un vago terrore di cader malato
e di morir per viaggio, e d'esser buttato là in mezzo a quella pianura desolata,
dove il suo cadavere sarebbe stato dilaniato dai cani e dagli uccelli di rapina,
come certi corpi di cavalli e di vacche che vedeva tratto tratto accanto alla
strada, e da cui torceva lo sguardo con ribrezzo. In quel malessere inquieto, in
mezzo a quel silenzio tetro della natura, la sua immaginazione s'eccitava e
volgeva al nero. Era poi ben sicuro di trovarla, a Cordova, sua madre? E se non
ci fosse stata? Se quel signore di via delle Arti avesse sbagliato? E se fosse
morta? In questi pensieri si riaddormentò, sognò d'essere a Cordova di notte, e
di sentirsi gridare da tutte le porte e da tutte le finestre: - Non c'è! Non
c'è! Non c'è! - si risvegliò di sobbalzo, atterrito, e vide in fondo al vagone
tre uomini barbuti, ravvolti in scialli di vari colori, che lo guardavano,
parlando basso tra di loro; e gli balenò il sospetto che fossero assassini e lo
volessero uccidere, per rubargli la sacca. Al freddo, al malessere gli
s'aggiunse la paura; la fantasia già turbata gli si stravolse; - i tre uomini lo
fissavano sempre, - uno di essi mosse verso di lui; - allora egli smarrì la
ragione, e correndogli incontro con le braccia aperte, gridò: - Non ho nulla.
Sono un povero ragazzo. Vengo dall'Italia vo a cercar mia madre, son solo; non
mi fate del male! - Quelli capirono subito, n'ebbero pietà, lo carezzarono e lo
racquetarono, dicendogli molte parole che non intendeva; e vedendo che batteva i
denti dal freddo, gli misero addosso uno dei loro scialli, e lo fecero risedere
perché dormisse. E si riaddormentò, che imbruniva. Quando lo svegliarono, era a
Cordova.
Ah!
che buon respiro tirò, e con che impeto si cacciò fuori del vagone! Domandò a un
impiegato della stazione dove stesse di casa l'ingegner Mequinez: quegli disse
il nome d'una chiesa: - la casa era accanto alla chiesa; - il ragazzo scappò
via. Era notte. Entrò in città. E gli parve d'entrare in Rosario un'altra volta,
al veder quelle strade diritte, fiancheggiate di piccole case bianche, e
tagliate da altre strade diritte e lunghissime. Ma c'era poca gente, e al
chiarore dei rari lampioni incontrava delle facce strane, d'un colore
sconosciuto, tra nerastro e verdognolo, e alzando il viso a quando a quando,
vedeva delle chiese d'architettura bizzarra che si disegnavano enormi e nere sul
firmamento. La città era oscura e silenziosa; ma dopo aver attraversato quell'immenso
deserto, gli pareva allegra. Interrogò un prete, trovò presto la chiesa e la
casa, tirò il campanello con una mano tremante, e si premette l'altra sul petto
per comprimere i battiti del cuore, che gli saltava alla gola.
Una vecchia venne ad aprire, con un lume in mano. Il ragazzo non poté parlar
subito.
- Chi cerchi? - domandò quella, in spagnuolo.
- L'ingegnere Mequinez, - disse Marco.
La vecchia fece l'atto d'incrociar le braccia sul seno, e rispose dondolando il
capo. - Anche tu, dunque, l'hai con l'ingegnere Mequinez! E mi pare che sarebbe
tempo di finirla. Son tre mesi oramai, che ci seccano. Non basta che l'abbiano
detto i giornali. Bisognerà farlo stampare sulle cantonate che il signor
Mequinez è andato a stare a Tucuman!
Il ragazzo fece un gesto di disperazione. Poi diede in uno scoppio di rabbia. -
É una maledizione dunque! Io dovrò morire per la strada senza trovare mia madre!
Io divento matto, m'ammazzo! Dio mio! Come si chiama quel paese? Dov'è? A che
distanza è?
- Eh, povero ragazzo, - rispose la vecchia, impietosita, - una bagattella!
Saranno quattrocento o cinquecento miglia, a metter poco.
Il ragazzo si coprì il viso con le mani; poi domandò con un singhiozzo: - E
ora... come faccio?
- Che vuoi che ti dica, povero figliuolo, - rispose la donna; - io non so.
Ma subito le balenò un'idea e soggiunse in fretta: - Senti, ora che ci penso. Fa
una cosa. Svolta a destra per la via, troverai alla terza parte un cortile; c'è
un capataz, un commerciante, che parte domattina per Tucuman con le sue
carretas e i suoi bovi; va a vedere se ti vuol prendere, offrendogli i
tuoi servizi; ti darà forse un posto sur un carro; va' subito.
Il ragazzo afferrò la sacca, ringraziò scappando, e dopo due minuti si trovò in
un vasto cortile rischiarato da lanterne, dove vari uomini lavoravano a caricar
sacchi di frumento sopra certi carri enormi, simili a case mobili di
saltimbanchi, col tetto rotondo e le ruote altissime; ed un uomo alto e baffuto,
ravvolto in una specie di mantello a quadretti bianchi e neri, con due grandi
stivali, dirigeva il lavoro. Il ragazzo s'avvicinò a questo, e gli fece
timidamente la sua domanda, dicendo che veniva dall'Italia e che andava a
cercare sua madre.
Il capataz, che vuol dir capo (il capo conduttore di quel convoglio di
carri), gli diede un'occhiata da capo a piedi, e rispose seccamente: - Non ci ho
posto.
- Io ho quindici lire, - rispose il ragazzo, supplichevole, - do le mie quindici
lire. Per viaggio lavorerò. Andrò a pigliar l'acqua e la biada per le bestie,
farò tutti i servizi. Un poco di pane mi basta. Mi faccia un po' di posto,
signore!
Il capataz tornò a guardarlo, e rispose con miglior garbo: - Non c'è
posto... e poi... noi non andiamo a Tucuman, andiamo a un'altra città, Santiago
dell'Estero. A un certo punto ti dovremmo lasciare, e avresti ancora un gran
tratto da far a piedi.
- Ah! io ne farei il doppio! - esclamò Marco; - io camminerò, non ci pensi;
arriverò in ogni maniera, mi faccia un po' di posto, signore, per carità, per
carità non mi lasci qui solo!
- Bada che è un viaggio di venti giorni!
- Non importa.
- É un viaggio duro!
- Sopporterò tutto
- Dovrai viaggiar solo!
- Non ho paura di nulla. Purché ritrovi mia madre. Abbia compassione!
Il capataz gli accostò al viso una lanterna e lo guardò. Poi disse: - Sta
bene.
Il ragazzo gli baciò la mano.
- Stanotte dormirai in un carro, - soggiunse il capataz, lasciandolo; -
domattina alle quattro ti sveglierò. Buenas noches.
La mattina alle quattro, al lume delle stelle, la lunga fila dei carri Si mise
in movimento con grande strepitio: ciascun carro tirato da sei bovi, seguiti
tutti da un gran numero di animali di ricambio. Il ragazzo, svegliato e messo
dentro a un dei carri, sui sacchi, si raddormentò subito, profondamente. Quando
si svegliò, il convoglio era fermo in un luogo solitario, sotto il sole, e tutti
gli uomini - i peones - stavan seduti in cerchio intorno a un quarto di
vitello, che arrostiva all'aria aperta, infilato in una specie di spadone
piantato in terra, accanto a un gran foco agitato dal vento. Mangiarono tutti
insieme, dormirono e poi ripartirono; e così il viaggio continuò, regolato come
una marcia di soldati. Ogni mattina si mettevano in cammino alle cinque, si
fermavano alle nove, ripartivano alle cinque della sera, tornavano a fermarsi
alle dieci. I peones andavano a cavallo e stimolavano i buoi con lunghe
canne. Il ragazzo accendeva il fuoco per l'arrosto, dava da mangiare alle
bestie, ripuliva le lanterne, portava l'acqua da bere. Il paese gli passava
davanti come una visione indistinta: vasti boschi di piccoli alberi bruni;
villaggi di poche case sparse, con le facciate rosse e merlate; vastissimi
spazi, forse antichi letti di grandi laghi salati, biancheggianti di sale fin
dove arrivava la vista; e da ogni parte e sempre, pianura, solitudine, silenzio.
Rarissimamente incontravano due o tre viaggiatori a cavallo, seguiti da un
branco di cavalli sciolti, che passavano di galoppo, come un turbine. I giorni
eran tutti eguali, come sul mare; uggiosi e interminabili. Ma il tempo era
bello. Senonché i peones, come se il ragazzo fosse stato il loro
servitore obbligato, diventavano di giorno in giorno più esigenti: alcuni lo
trattavano brutalmente, con minacce; tutti si facevan servire senza riguardi;
gli facevan portare carichi enormi di foraggi; lo mandavan a pigliar acqua a
grandi distanze; ed egli, rotto dalla fatica, non poteva neanche dormire la
notte, scosso continuamente dai sobbalzi violenti del carro e dallo scricchiolìo
assordante delle ruote e delle sale di legno. E per giunta, essendosi levato il
vento, una terra fina, rossiccia e grassa, che avvolgeva ogni cosa, penetrava
nel carro, gli entrava sotto i panni, gli empiva gli occhi e la bocca, gli
toglieva la vista e il respiro, continua, opprimente, insopportabile. Sfinito
dalle fatiche e dall'insonnia, ridotto lacero e sudicio, rimbrottato e malmenato
dalla mattina alla sera, il povero ragazzo s'avviliva ogni giorno di più, e si
sarebbe perduto d'animo affatto se il capataz non gli avesse rivolto di
tratto in tratto qualche buona parola. Spesso, in un cantuccio del carro, non
veduto, piangeva col viso contro la sua sacca, la quale non conteneva più che
dei cenci. Ogni mattina si levava più debole e più scoraggiato, e guardando la
campagna, vedendo sempre quella pianura sconfinata e implacabile, come un oceano
di terra, diceva tra sé: - Oh! fino a questa sera non arrivo, fino a questa sera
non arrivo! Quest'oggi muoio per la strada! - E le fatiche crescevano, i mali
trattamenti raddoppiavano. Una mattina, perché aveva tardato a portar l'acqua,
in assenza del capataz, uno degli uomini lo percosse. E allora
cominciarono a farlo per vezzo, quando gli davano un ordine, a misurargli uno
scapaccione, dicendo: - Insacca questo, vagabondo! - Porta questo a tua madre! -
Il cuore gli scoppiava; ammalò; - stette tre giorni nel carro, con una coperta
addosso, battendo la febbre, e non vedendo nessuno, fuori che il capataz,
che veniva a dargli da bere e a toccargli il polso. E allora Si credette
perduto, e invocava disperatamente sua madre, chiamandola cento volte per nome:
- Oh mia madre! madre mia! Aiutami! Vienmi incontro che muoio! Oh povera madre
mia, che non ti vedrò mai più! Povera madre mia, che mi troverai morto per la
strada! - E giungeva le mani sul petto e pregava. Poi miglioro, grazie alle cure
del capataz, e guarì; ma con la guarigione sopraggiunse il giorno più
terribile del suo viaggio, il giorno in cui doveva rimaner solo. Da più di due
settimane erano in cammino. Quando arrivarono al punto dove dalla strada di
Tucuman si stacca quella che va a Santiago dell'Estero, il capataz gli
annunciò che dovevano separarsi. Gli diede qualche indicazione intorno al
cammino, gli legò la sacca sulle spalle in modo che non gli desse noia a
camminare, e tagliando corto, come se temesse di commuoversi, lo salutò. Il
ragazzo fece appena in tempo a baciargli un braccio. Anche gli altri uomini, che
lo avevano maltrattato così duramente, parve che provassero un po' di pietà a
vederlo rimaner così solo, e gli fecero un cenno d'addio, allontanandosi. Ed
egli restituì il saluto con la mano, stette a guardar il convoglio fin che si
perdette nel polverìo rosso della campagna, e poi si mise in cammino,
tristamente.
Una
cosa, per altro, lo riconfortò un poco, fin da principio. Dopo tanti giorni di
viaggio a traverso a quella pianura sterminata e sempre eguale egli vedeva
davanti a sé una catena di montagne altissime, azzurre, con le cime bianche, che
gli rammentavano le Alpi, e gli davan come un senso di ravvicinamento al suo
paese. Erano le Ande, la spina dorsale del continente Americano, la catena
immensa che si stende dalla Terra del fuoco fino al mare glaciale del polo
artico per cento e dieci gradi di latitudine. Ed anche lo confortava il sentire
che l'aria si veniva facendo sempre più calda; e questo avveniva perché,
risalendo verso settentrione, egli si andava avvicinando alle regioni tropicali.
A grandi distanze trovava dei piccoli gruppi di case, con una botteguccia; e
comprava qualche cosa da mangiare. Incontrava degli uomini a cavallo; vedeva
ogni tanto delle donne e dei ragazzi seduti in terra, immobili e gravi, delle
faccie nuove affatto per lui, color di terra, con gli occhi obbliqui, con l'ossa
delle guance sporgenti; i quali lo guardavano fisso, e lo accompagnavano con lo
sguardo, girando il capo lentamente, come automi. Erano Indiani. Il primo giorno
camminò fin che gli ressero le forze, e dormì sotto un albero. Il secondo giorno
camminò assai meno, e con minor animo. Aveva le scarpe rotte, i piedi spellati,
lo stomaco indebolito dalla cattiva nutrizione. Verso sera s'incominciava a
impaurire. Aveva inteso dire in Italia che in quei paesi c'eran dei serpenti:
credeva di sentirli strisciare, s'arrestava, pigliava la corsa, gli correvan dei
brividi nelle ossa. A volte lo prendeva una grande compassione di sé, e piangeva
in silenzio, camminando. Poi pensava: - Oh quanto soffrirebbe mia madre se
sapesse che ho tanta paura! - e questo pensiero gli ridava coraggio. Poi, per
distrarsi dalla paura, pensava a tante cose di lei, si richiamava alla mente le
sue parole di quand'era partita da Genova, e l'atto con cui soleva accomodargli
le coperte sotto il mento, quando era a letto, e quando era bambino, che alle
volte se lo pigliava fra le braccia, dicendogli: - Sta' un po' qui con me, - e
stava così molto tempo, col capo appoggiato sul suo, pensando, pensando. E le
diceva tra sé: - Ti rivedrò un giorno, cara madre? Arriverò alla fine del mio
viaggio, madre mia? - E camminava, camminava, in mezzo ad alberi sconosciuti, a
vaste piantagioni di canne da zucchero, a praterie senza fine, sempre con quelle
grandi montagne azzurre davanti, che tagliavano il cielo sereno coi loro
altissimi coni. Quattro giorni - cinque - una settimana passò. Le forze gli
andavan rapidamente scemando, i piedi gli sanguinavano. Finalmente, una sera al
cader del sole, gli dissero: - Tucuman è a cinque miglia di qui. - Egli gittò un
grido di gioia, e affrettò il passo, come se avesse riacquistato in un punto
tutto il vigore perduto. Ma fu una breve illusione. Le forze lo abbandonarono a
un tratto, e cadde sull'orlo d'un fosso, sfinito. Ma il cuore gli batteva dalla
contentezza. Il cielo, fitto di stelle splendidissime, non gli era mai parso
così bello. Egli le contemplava, adagiato sull'erba per dormire, e pensava che
forse nello stesso tempo anche sua madre le guardava. E diceva: - O madre mia,
dove sei? che cosa fai in questo momento? Pensi al tuo figliuolo? Pensi al tuo
Marco, che ti è tanto vicino?
Povero Marco, s'egli avesse potuto vedere in quale stato si trovava sua madre in
quel punto, avrebbe fatto uno sforzo sovrumano per camminare ancora, e arrivar
da lei qualche ora prima. Era malata, a letto, in una camera a terreno d'una
casetta signorile, dove abitava tutta la famiglia Mequinez; la quale le aveva
posto molto affetto e le faceva grande assistenza. La povera donna era già
malaticcia quando l'ingegnere Mequinez aveva dovuto partire improvvisamente da
Buenos Aires, e non s'era punto rimessa colla buon'aria di Cordova. Ma poi, il
non aver più ricevuto risposta alle sue lettere né dal marito né dal cugino, il
presentimento sempre vivo di qualche grande disgrazia, l'ansietà continua in cui
era vissuta, incerta tra il partire e il restare, aspettando ogni giorno una
notizia funesta, l'avevano fatta peggiorare fuor di modo. Da ultimo, le s'era
manifestata una malattia gravissima: un'ernia intestinale strozzata. Da quindici
giorni non s'alzava da letto. Era necessaria un'operazione chirurgica per
salvarle la vita. E in quel momento appunto, mentre il suo Marco la invocava,
stavano accanto al suo letto il padrone e la padrona di casa, a ragionarla con
molta dolcezza perché si lasciasse operare, ed essa persisteva nel rifiuto,
piangendo. Un bravo medico di Tucuman era già venuto la settimana prima,
inutilmente. - No, cari signori - essa diceva, - non mette conto; non ho più
forza di resistere; morirei sotto i ferri del chirurgo. É meglio che mi lascino
morir così. Non ci tengo più alla vita oramai. Tutto è finito per me. É meglio
che muoia prima di sapere cos'è accaduto alla mia famiglia. - E i padroni a
dirle di no, che si facesse coraggio, che alle ultime lettere mandate a Genova
direttamente avrebbe ricevuto risposta, che si lasciasse operare, che lo facesse
per i suoi figliuoli. Ma quel pensiero dei suoi figliuoli non faceva che
aggravare di maggior ansia lo scoraggiamento profondo che la prostrava da lungo
tempo. A quelle parole scoppiava in un pianto. - Oh, i miei figliuoli! i miei
figliuoli! - esclamava, giungendo le mani; - forse non ci sono più! É meglio che
muoia anch'io. Li ringrazio, buoni signori, li ringrazio di cuore. Ma è meglio
che muoia. Tanto non guarirei neanche con l'operazione, ne sono sicura. Grazie
di tante cure, buoni signori. É inutile che dopo domani torni il medico. Voglio
morire. É destino ch'io muoia qui. Ho deciso. - E quelli ancora a consolarla, a
ripeterle: - No, non dite questo; - e a pigliarla per le mani e a pregarla. Ma
essa allora chiudeva gli occhi, sfinita, e cadeva in un assopimento, che pareva
morta. E i padroni restavano lì un po' di tempo, alla luce fioca d'un lumicino,
a guardare con grande pietà quella madre ammirabile, che per salvare la sua
famiglia era venuta a morire a sei mila miglia dalla sua patria, a morire dopo
aver tanto penato, povera donna, così onesta, così buona, così sventurata.
Il giorno dopo, di buon mattino, con la sua sacca sulle spalle, curvo e
zoppicante, ma pieno d'animo, Marco entrava nella città di Tucuman, una delle
più giovani e delle più floride città della Repubblica Argentina. Gli parve di
rivedere Cordova, Rosario, Buenos Aires: erano quelle stesse vie diritte e
lunghissime, e quelle case basse e bianche; ma da ogni parte una vegetazione
nuova e magnifica, un'aria profumata, una luce meravigliosa, un cielo limpido e
profondo, come egli non l'aveva mai visto, neppure in Italia. Andando innanzi
per le vie, riprovò l'agitazione febbrile che lo aveva preso a Buenos Aires;
guardava le finestre e le porte di tutte le case; guardava tutte le donne che
passavano, con una speranza affannosa di incontrar sua madre; avrebbe voluto
interrogar tutti, e non osava fermar nessuno. Tutti di sugli usci, si voltavano
a guardar quel povero ragazzo stracciato e polveroso, che mostrava di venir di
tanto lontano. Ed egli cercava fra la gente un viso che gl'ispirasse fiducia,
per rivolgergli quella tremenda domanda, quando gli caddero gli occhi sopra un
insegna di bottega, su cui era scritto un nome italiano. C'era dentro un uomo
con gli occhiali e due donne. Egli s'avvicinò lentamente alla porta, e fatto un
animo risoluto, domandò: - Mi saprebbe dire, signore, dove sta la famiglia
Mequinez?
- Dell'ingeniero Mequinez? - domandò il bottegaio alla sua volta.
- Dell'ingegnere Mequinez, - rispose il ragazzo, con un fil di voce.
- La famiglia Mequinez, - disse il bottegaio, - non è a Tucuman.
Un grido di disperato dolore, come d'una persona pugnalata, fece eco a quelle
parole.
Il bottegaio e le donne s'alzarono, alcuni vicini accorsero. - Che c'è? che hai,
ragazzo? - disse il bottegaio, tirandolo nella bottega e facendolo sedere; - non
c'è da disperarsi, che diavolo! I Mequinez non sono qui, ma poco lontano, a
poche ore da Tucuman!
- Dove? dove? - gridò Marco, saltando su come un resuscitato.
- A una quindicina di miglia di qua, - continuò l'uomo, - in riva al Saladillo,
in un luogo dove stanno costruendo una grande fabbrica da zucchero, un gruppo di
case, c'è la casa del signor Mequinez, tutti lo sanno, ci arriverai in poche
ore.
- Ci son stato io un mese fa, - disse un giovane che era accorso al grido.
Marco lo guardò con gli occhi grandi e gli domandò precipitosamente,
impallidendo: - Avete visto la donna di servizio del signor Mequinez,
l'italiana?
- La jenovesa? L'ho vista.
Marco ruppe in un singhiozzo convulso, tra di riso e di pianto. Poi con un
impeto di risoluzione violenta: - Dove si passa, presto, la strada, parto
subito, insegnatemi la strada!
- Ma c'è una giornata di marcia, - gli dissero tutti insieme, - sei stanco, devi
riposare, partirai domattina.
- Impossibile! Impossibile! - rispose il ragazzo. - Ditemi dove si passa, non
aspetto più un momento, parto subito, dovessi morire per via!
Vistolo irremovibile, non s'opposero più. - Dio t'accompagni, - gli dissero. -
Bada alla via per la foresta. - Buon viaggio, italianito. - Un uomo
l'accompagnò fuori di città, gli indicò il cammino, gli diede qualche consiglio
e stette a vederlo partire. In capo a pochi minuti, il ragazzo scomparve,
zoppicando, con la sua sacca sulle spalle, dietro agli alberi folti che
fiancheggiavan la strada.
Quella
notte fu tremenda per la povera inferma. Essa aveva dei dolori atroci che le
strappavan degli urli da rompersi le vene, e le davan dei momenti di delirio. Le
donne che l'assistevano, perdevan la testa. La padrona accorreva di tratto in
tratto, sgomentata. Tutti cominciarono a temere che, se anche si fosse decisa a
lasciarsi operare, il medico che doveva venire la mattina dopo, sarebbe arrivato
troppo tardi. Nei momenti che non delirava, però, si capiva che il suo più
terribile strazio non erano i dolori del corpo, ma il pensiero della famiglia
lontana. Smorta, disfatta, col viso mutato, si cacciava le mani nei capelli con
un atto di disperazione che passava l'anima, e gridava: - Dio mio! Dio mio!
Morire tanto lontana, morire senza rivederli! I miei poveri figliuoli, che
rimangono senza madre, le mie creature, il povero sangue mio! Il mio Marco, che
è ancora così piccolo, alto così, tanto buono e affettuoso! Voi non sapete che
ragazzo era! Signora, se sapesse! Non me lo potevo staccare dal collo quando son
partita, singhiozzava da far compassione, singhiozzava; pareva che lo sapesse
che non avrebbe mai più rivisto sua madre, povero Marco, povero bambino mio!
Credevo che mi scoppiasse il cuore! Ah se fossi morta allora, morta mentre mi
diceva addio! morta fulminata fossi! Senza madre, povero bambino, lui che
m'amava tanto, che aveva tanto bisogno di me, senza madre, nella miseria, dovrà
andare accattando, lui, Marco, Marco mio, che tenderà la mano, affamato! Oh! Dio
eterno! No! Non voglio morire! Il medico! Chiamatelo subito! Venga, mi tagli, mi
squarci il seno, mi faccia impazzire, ma mi salvi la vita! Voglio guarire,
voglio vivere, partire, fuggire, domani, subito! Il medico! Aiuto! Aiuto! - E le
donne le afferavan le mani, la palpavano, pregando, la facevano tornare in sé a
poco a poco, e le parlavan di Dio e di speranza. E allora essa ricadeva in un
abbattimento mortale, piangeva, con le mani nei capelli grigi, gemeva come una
bambina, mettendo un lamento prolungato, e mormorando di tratto in tratto: - Oh
la mia Genova! La mia casa! Tutto quel mare!... Oh Marco mio, il mio povero
Marco! Dove sarà ora, la povera creatura mia!
Era
mezzanotte; e il suo povero Marco, dopo aver passato molte ore sulla sponda d'un
fosso, stremato di forze, camminava allora attraverso a una foresta vastissima
di alberi giganteschi, mostri della vegetazione, dai fusti smisurati, simili a
pilastri di cattedrali, che intrecciavano a un'altezza meravigliosa le loro
enormi chiome inargentate dalla luna. Vagamente, in quella mezza oscurità, egli
vedeva miriadi di tronchi di tutte le forme, ritti, inclinati, scontorti,
incrociati in atteggiamenti strani di minaccia e di lotta; alcuni rovesciati a
terra, come torri cadute tutte d'un pezzo, e coperti d'una vegetazione fitta e
confusa, che pareva una folla furente che se li disputasse a palmo a palmo;
altri raccolti in grandi gruppi, verticali e serrati come fasci di lancie
titaniche, di cui la punta toccasse le nubi; una grandezza superba, un disordine
prodigioso di forme colossali, lo spettacolo più maestosamente terribile che gli
avesse mai offerto la natura vegetale. A momenti lo prendeva un grande stupore.
Ma subito l'anima sua si rilanciava verso sua madre. Ed era sfinito, coi piedi
che facevan sangue, solo in mezzo a quella formidabile foresta, dove non vedeva
che a lunghi intervalli delle piccole abitazioni umane, che ai piedi di quegli
alberi parevan nidi di formiche, e qualche bufalo addormentato lungo la via; era
sfinito, ma non sentiva la stanchezza; era solo, e non aveva paura. La grandezza
della foresta ingrandiva l'anima sua; la vicinanza di sua madre gli dava la
forza e la baldanza d'un uomo; la ricordanza dell'oceano, degli sgomenti, dei
dolori sofferti e vinti, delle fatiche durate, della ferrea costanza spiegata,
gli facea, alzare la fronte; tutto il suo forte e nobile sangue genovese gli
rifluiva al cuore in un'onda ardente d'alterezza e d'audacia. E una cosa nuova
seguiva in lui: che mentre fino allora aveva portata nella mente un'immagine
della madre oscurata e sbiadita un poco da quei due anni di lontananza, in quei
momenti quell'immagine gli si chiariva; egli rivedeva il suo viso intero e netto
come da lungo tempo non l'aveva visto più; lo rivedeva vicino, illuminato,
parlante; rivedeva i movimenti più sfuggevoli dei suoi occhi e delle sue labbra,
tutti i suoi atteggiamenti, tutti i suoi gesti, tutte le ombre dei suoi
pensieri; e sospinto da quei ricordi incalzanti, affrettava il passo; e un nuovo
affetto, una tenerezza indicibile gli cresceva, gli cresceva nel cuore,
facendogli correre giù pel viso delle lacrime dolci e quiete; e andando avanti
nelle tenebre, le parlava, le diceva le parole che le avrebbe mormorate
all'orecchio tra poco: - Son qui, madre mia, eccomi qui, non ti lascerò mai più;
torneremo a casa insieme, e io ti starò sempre accanto sul bastimento, stretto a
te, e nessuno mi staccherà mai più da te, nessuno, mai più, fin che avrai vita!
- E non s'accorgeva intanto che sulle cime degli alberi giganteschi andava
morendo la luce argentina della luna nella bianchezza delicata dell'alba.
Alle
otto di quella mattina il medico di Tucuman, - un giovane argentino - era già al
letto della malata, in compagnia d'un assistente, a tentare per l'ultima volta
di persuaderla a lasciarsi operare; e con lui ripetevano le più calde istanze
l'ingegnere Mequinez e la sua signora. Ma tutto era inutile. La donna,
sentendosi esausta di forze, non aveva più fede nell'operazione; essa era
certissima o di morire sull'atto o di non sopravvivere che poche ore, dopo
d'aver sofferto invano dei dolori più atroci di quelli che la dovevano uccidere
naturalmente. Il medico badava a ridirle: - Ma l'operazione è sicura, ma la
vostra salvezza è certa, purché ci mettiate un po' di coraggio! Ed è egualmente
certa la vostra morte se vi rifiutate! - Eran parole buttate via. - No, - essa
rispondeva, con la voce fioca, - ho ancora coraggio per morire; ma non ne ho più
per soffrire inutilmente. Grazie, signor dottore. É destinato così. Mi lasci
morir tranquilla. - Il medico, scoraggiato, desistette. Nessuno parlò più.
Allora la donna voltò il viso verso la padrona, e le fece con voce di moribonda
le sue ultime preghiere. - Cara, buona signora, - disse a gran fatica,
singhiozzando, - lei manderà quei pochi denari e le mie povere robe alla mia
famiglia... per mezzo del signor Console. Io spero che sian tutti vivi. Il cuore
mi predice bene in questi ultimi momenti. Mi farà la grazia di scrivere... che
ho sempre pensato a loro, che ho sempre lavorato per loro... per i miei
figliuoli... e che il mio solo dolore fu di non rivederli più... ma che son
morta con coraggio... rassegnata... benedicendoli; e che raccomando a mio
marito... e al mio figliuolo maggiore... il più piccolo, il mio povero Marco...
che l'ho avuto in cuore fino all'ultimo momento... - Ed esaltandosi tutt'a un
tratto, gridò giungendo le mani: - Il mio Marco! Il mio bambino! La vita mia!...
- Ma girando gli occhi pieni di pianto, vide che la padrona non c'era più: eran
venuti a chiamarla furtivamente. Cercò il padrone: era sparito. Non restavan più
che le due infermiere e l'assistente. Si sentiva nella stanza vicina un rumore
affrettato di passi, un mormorio di voci rapide e sommesse, e d'esclamazioni
rattenute. La malata fissò sull'uscio gli occhi velati, aspettando. Dopo alcuni
minuti vide comparire il medico, con un viso insolito; poi la padrona e il
padrone, anch'essi col viso alterato. Tutti e tre la guardarono con
un'espressione singolare, e si scambiarono alcune parole a bassa voce. Le parve
che il medico dicesse alla signora: - Meglio subito. - La malata non capiva.
- Josefa, - le disse la padrona con la voce tremante. - Ho una buona notizia da
darvi. Preparate il cuore a una buona notizia.
La donna la guardò attentamente.
- Una notizia, - continuò la signora, sempre più agitata, - che vi darà una
grande gioia.
La malata dilatò gli occhi.
- Preparatevi, - proseguì la padrona, - a vedere una persona... a cui volete
molto bene.
La donna alzò il capo con un scatto vigoroso, e cominciò a guardare rapidamente
ora la signora ora l'uscio, con gli occhi sfolgoranti.
- Una persona, - soggiunse la signora, impallidendo, - arrivata or ora...
inaspettatamente.
- Chi è? - gridò la donna con una voce strozzata e strana, come di persona
spaventata.
Un istante dopo gittò un grido altissimo, balzando a sedere sul letto, e rimase
immobile, con gli occhi spalancati e con le mani alle tempie, come davanti a
un'apparizione sovrumana.
Marco, lacero e polveroso, era là ritto sulla soglia, trattenuto per un braccio
dal dottore.
La donna urlò tre volte: - Dio! Dio! Dio mio!
Marco si slanciò avanti, essa protese le braccia scarne, e serrandolo al seno
con la forza d'una tigre, scoppiò in un riso violento, rotto da profondi
singhiozzi senza lagrime, che la fecero ricader soffocata sul cuscino.
Ma si riprese subito e gridò pazza di gioia, tempestandogli il capo di baci: -
Come sei qui? Perché? Sei tu? Come sei cresciuto! Chi t'ha condotto? Sei solo?
Non sei malato? Sei tu, Marco! Non è un sogno! Dio mio! Parlami! - Poi cambiando
tono improvvisamente: - No! Taci! Aspetta! - E voltandosi verso il medico, a
precipizio: - Presto, subito, dottore. Voglio guarire. Son pronta. Non perda un
momento. Conducete via Marco che non senta. Marco mio, non è nulla. Mi
racconterai. Ancora un bacio. Va. Eccomi qui, dottore.
Marco fu portato via. I padroni e le donne uscirono in fretta; rimasero il
chirurgo e l'assistente, che chiusero la porta.
Il signor Mequinez tentò di tirar Marco in una stanza lontana; ma fu
impossibile; egli parea inchiodato al pavimento.
- Cosa c'è? - domandò. - Cos'ha mia madre? Cosa le fanno?
E allora il Mequinez, piano, tentando sempre di condurlo via: - Ecco. Senti. Ora
ti dirò. Tua madre è malata, bisogna farle una piccola operazione, ti spiegherò
tutto, vieni con me.
- No, - rispose il ragazzo, impuntandosi, - voglio star qui. Mi spieghi qui.
L'ingegnere ammontava parole su parole, tirandolo: il ragazzo cominciava a
spaventarsi e a tremare.
A un tratto un grido acutissimo, come il grido d'un ferito a morte, risonò in
tutta la casa.
Il ragazzo rispose con un altro grido disperato: - Mia madre è morta!
Il medico comparve sull'uscio e disse: - Tua madre è salva.
Il ragazzo lo guardò un momento e poi si gettò ai suoi piedi singhiozzando: -
Grazie dottore!
Ma il dottore lo rialzò d'un gesto, dicendo: - Levati!... Sei tu, eroico
fanciullo, che hai salvato tua madre.
Estate
24, mercoledì
Marco
il genovese è il penultimo piccolo eroe di cui facciamo conoscenza quest'anno:
non ne resta che uno per il mese di giugno. Non ci son più che due esami
mensili, ventisei giorni di lezione, sei giovedì e cinque domeniche. Si sente
già l'aria della fine dell'anno. Gli alberi del giardino, fronzuti e fioriti,
fanno una bell'ombra sugli attrezzi della ginnastica. Gli scolari son già
vestiti da estate. É bello ora veder l'uscita delle classi, com'è tutto diverso
dai mesi scorsi. Le capigliature che toccavan le spalle sono andate giù: tutte
le teste sono rapate; si vedono gambe nude e colli nudi; cappellini di paglia
d'ogni forma, con dei nastri che scendon fin sulle schiene; camicie e cravattine
di tutti i colori; tutti i più piccoli con qualche cosa addosso di rosso o
d'azzurro, una mostra, un orlo, una nappina, un cencino di color vivo
appiccicato pur che sia dalla mamma, perché faccia figura, anche i più poveri, e
molti vengono alla scuola senza cappello, come scappati di casa. Alcuni portano
il vestito bianco della ginnastica. C'è un ragazzo della maestra Delcati che è
tutto rosso da capo a piedi, come un gambero cotto. Parecchi sono vestiti da
marinai. Ma il più bello è il muratorino che ha messo su un cappellone di
paglia, che gli dà l'aria d'una mezza candela col paralume; ed è un ridere a
vedergli fare il muso di lepre là sotto. Coretti anche ha smesso il suo berretto
di pel di gatto e porta un vecchio berretto di seta grigia da viaggiatore.
Votini ha una specie di vestimento alla scozzese, tutto attillato; Crossi mostra
il petto nudo; Precossi sguazza dentro a un camiciotto turchino da fabbro
ferraio. E Garoffi? Ora che ha dovuto lasciare il mantellone, che nascondeva il
suo commercio, gli rimangono scoperte bene tutte le tasche gonfie d'ogni sorta
di carabattole da rigattiere, e gli spuntan fuori le liste delle lotterie. Ora
tutti lascian vedere quello che portano: dei ventagli fatti con mezza gazzetta,
dei bocciuoli di canna, delle freccie da tirare agli uccelli, dell'erba, dei
maggiolini che sbucano fuor delle tasche e vanno su pian piano per le
giacchette. Molti di quei piccoli portano dei mazzetti di fiori alle maestre.
Anche le maestre son tutte vestite da estate, di colori allegri; fuorché la
"
monachina "
che è sempre nera, e la maestrina della penna rossa ha sempre la sua penna
rossa, e un nodo di nastri rosa al collo, tutti sgualciti dalle zampette dei
suoi scolari, che la fanno sempre ridere e correre. É la stagione delle
ciliegie, delle farfalle, delle musiche sui viali e delle passeggiate in
campagna; molti di quarta scappano già a bagnarsi nel Po; tutti hanno già il
cuore alle vacanze; ogni giorno si esce dalla scuola più impazienti e contenti
del giorno innanzi. Soltanto mi fa pena di veder Garrone col lutto, e la mia
povera maestra di prima che è sempre più smunta e più bianca e tosse sempre più
forte. Cammina curva ora, e mi fa un saluto così triste!
Poesia
26, venerdì
Tu
cominci a comprendere la poesia della scuola, Enrico; ma la scuola, per ora, non
la vedi che di dentro: ti parrà molto più bella e più poetica fra trent'anni,
quando ci verrai a accompagnare i tuoi figliuoli, e la vedrai di fuori, come io
la vedo. Aspettando l'uscita, io giro per le strade silenziose, intorno all'edifizio,
e porgo l'orecchio alle finestre del pian terreno, chiuse dalle persiane. Da una
finestra sento la voce d'una maestra che dice - Ah! quel taglio di
t! Non va, figliuol mio.
Che ne direbbe tuo padre?... - Alla finestra vicina è la grossa voce d'un
maestro che detta lentamente. - Comperò cinquanta metri di stoffa... a lire
quattro e cinquanta il metro... li rivendette... - Più in là è la maestrina
della penna rossa che legge ad alta voce: - Allora Pietro Micca con la miccia
accesa... - Dalla classe vicina esce come un cinguettio di cento uccelli, che
vuol dir che il maestro è andato fuori un momento. Vo innanzi, e alla svoltata
del canto sento uno scolaro che piange, e la voce della maestra che lo
rimprovera o lo consola. Da altre finestre vengono fuori dei versi, dei nomi
d'uomini grandi e buoni, dei frammenti di sentenze che consiglian la virtù,
l'amor di patria, il coraggio. Poi seguono dei momenti di silenzio, in cui si
direbbe che l'edifizio è vuoto, e non par possibile che ci sian dentro
settecento ragazzi, poi si senton degli scoppi rumorosi d'ilarità, provocati
dallo scherzo d'un maestro di buon umore... E la gente che passa si sofferma a
ascoltare, e tutti rivolgono uno sguardo di simpatia a quell'edificio gentile,
che racchiude tanta giovinezza e tante speranze. Poi si ode un improvviso
strepito sordo, un batter di libri e di cartelle, uno stropiccio di piedi, un
ronzìo che si propaga di classe in classe e dal basso all'alto, come al
diffondersi improvviso d'una buona notizia: è il bidello che gira ad annunziare
il finis. E a quel rumore una folla di donne, d'uomini, di ragazze e di
giovanetti, si stringono di qua e di là dalla porta, a aspettare i figliuoli, i
fratelli, i nipotino, mentre dagli usci delle classi schizzan fuori come
zampillando nel camerone i ragazzi piccoli, a pigliar cappottini e cappelli,
facendone un arruffìo sul pavimento, e ballettando tutt'in giro, fin che il
bidello li ricaccia dentro a uno a uno. E finalmente escono, in lunghe file,
battendo i piedi. E allora da tutti i parenti comincia la pioggia delle domande:
- Hai saputo la lezione? Quanto t'ha dato del lavoro? Che cos'avete per domani?
Quand'è l'esame mensile? - E anche le povere madri che non sanno leggere, aprono
i quaderni, guardano i problemi, domandano i punti: - Solamente otto? - Dieci
con lode? - Nove di lezione? - E s'inquietano e si rallegrano e interrogano i
maestri e parlan di programmi e d'esami. Com'è bello tutto questo, com'è grande,
e che immensa promessa è pel mondo!
TUO PADRE
La
sordomuta
28, domenica
Non
potevo finirlo meglio che con la visita di questa mattina il mese di maggio.
Udiamo una scampanellata, corriamo tutti. Sento mio padre che dice in tuono di
meraviglia: - Voi qui, Giorgio? - Era Giorgio, il nostro giardiniere di Chieri,
che ora ha la famiglia a Condove, arrivato allora allora da Genova, dov'era
sbarcato il giorno avanti, di ritorno dalla Grecia, dopo tre anni che lavorava
alle strade ferrate. Aveva un grosso fagotto fra le braccia. É un po'
invecchiato, ma sempre rosso in viso e gioviale.
Mio padre voleva che entrasse; ma egli disse di no, e domandò subito, facendo il
viso serio: - Come va la mia famiglia? Come sta Gigia?
- Bene fino a pochi giorni fa, - rispose mia madre.
Giorgio tirò un gran sospiro: - Oh! Sia lodato Iddio! Non avevo il coraggio di
presentarmi ai Sordomuti senz'aver notizie da lei. Io lascio qui il fagotto e
scappo a pigliarla. Tre anni che non la vedo la mia povera figliuola! Tre anni
che non vedo nessuno dei miei!
Mio padre mi disse: - Accompagnalo.
- Ancora una parola, mi scusi, - disse il giardiniere sul pianerottolo.
Ma mio padre l'interruppe: - E gli affari?
- Bene, - rispose, - grazie a Dio. Qualche soldo l'ho portato. Ma volevo
domandare. Come va l'istruzione della mutina, dica un po'. Io l'ho lasciata che
era come un povero animaletto, povera creatura. Io ci credo poco, già, a questi
collegi. Ha imparato a fare i segni? Mia moglie mi scriveva bene: - Impara a
parlare, fa progressi. - Ma, dicevo io, che cosa vale che impari a parlare lei
se io i segni non li so fare? Come faremo a intenderci, povera piccina? Quello è
buono per capirsi fra loro, un disgraziato con l'altro. Come va, dunque? Come
va?
Mio padre sorrise, e rispose: - Non vi dico nulla; vedrete voi; andate, andate;
non le rubate un minuto di più.
Uscimmo; l'istituto è vicino. Strada facendo, a grandi passi, il giardiniere mi
parlava, rattristandosi. - Ah! la mia povera Gigia! Nascere con quella
disgrazia! Dire che non mi son mai sentito chiamar padre da lei, che lei
non s'è mai sentita chiamar figliuola da me, che mai non ha detto né
inteso una parola al mondo! E grazia che s'è trovato un signore caritatevole che
ha fatto le spese dell'istituto. Ma tanto... prima degli otto anni non c'è
potuta andare. Son tre anni che non è in casa. Va per gli undici, adesso. É
cresciuta, mi dica un po', è cresciuta? É
di buon umore?
- Ora vedrete, ora vedrete, - gli risposi affrettando il passo.
- Ma dov'è quest'istituto? - domandò. - Mia moglie ce l'accompagnò ch'ero già
partito. Mi pare che debba essere da queste parti.
Eravamo appunto arrivati. Entrammo subito nel parlatorio. Ci venne incontro un
custode. - Sono il padre di Gigia Voggi, disse il giardiniere; - la mia
figliuola subito subito. - Sono in ricreazione, - rispose il custode, - vado a
avvertir la maestra. - E scappò.
Il giardiniere non poteva più né parlare, né star fermo; guardava i quadri alle
pareti, senza veder nulla.
La porta s'aperse: entrò una maestra, vestita di nero, con una ragazza per mano.
Padre e figliuola si guardarono un momento e poi si slanciarono l'uno nelle
braccia dell'altro, mettendo un grido.
La ragazza era vestita di rigatino bianco e rossiccio, con un grembiale grigio.
É più alta di me. Piangeva e teneva suo padre stretto al collo con tutt'e due le
braccia.
Suo padre si svincolò, e si mise a guardarla da capo a piedi, coi lucciconi agli
occhi, ansando come se avesse fatto una gran corsa; e sclamò: - Ah! com'è
cresciuta! come s'è fatta bella! Oh la mia cara, la mia povera Gigia! La mia
povera mutina! É lei, signora, la maestra? Le dica un po' che mi faccia pure i
suoi segni, che qualche cosa capirò, e poi imparerò a poco a poco. Le dica che
mi faccia capire qualche cosa, coi gesti.
La maestra sorrise e disse a bassa voce alla ragazza: - Chi è quest'uomo che t'è
venuto a trovare?
E la ragazza, con una voce grossa, strana, stuonata come quella d'un selvaggio
che parlasse per la prima volta la nostra lingua, ma pronunciando chiaro, e
sorridendo, rispose: - É mi-o pa-dre.
Il giardiniere diede un passo indietro e gridò come un matto: - Parla! Ma è
possibile! Ma è possibile! Parla? Ma tu parli, bambina mia, parli? dimmi un
poco: parli? - E di nuovo l'abbracciò e la baciò sulla fronte tre volte. - Ma
non è coi gesti che parlano, signora maestra, non è con le dita, così? Ma cosa è
questo?
- No, signor Voggi, - rispose la maestra, - non è coi gesti. Quello era il
metodo antico. Qui s'insegna col metodo nuovo, col metodo orale. Come non lo
sapevate?
- Ma io non sapevo niente! - rispose il giardiniere, trasecolato. - Tre anni che
son fuori! O me l'avranno scritto e non l'ho capito. Sono una testa di legno,
io. O figliuola mia, tu mi capisci, dunque? Senti la mia voce? Rispondi un poco:
mi senti? Senti quello che ti dico?
- Ma no, buon uomo, - disse la maestra, - la voce non la sente, perché è sorda.
Essa capisce dai movimenti della vostra bocca quali sono le parole che voi dite;
ecco la cosa; ma non sente le vostre parole e neppure quello che essa dice a
voi; le pronuncia perché le abbiamo insegnato, lettera per lettera, come deve
atteggiar le labbra e muover la lingua, e che sforzo deve far col petto e con la
gola, per metter fuori la voce.
Il giardiniere non capì, e stette a bocca aperta. Non ci credeva ancora.
- Dimmi, Gigia, - domandò alla figliuola, parlandole all'orecchio, - sei
contenta che tuo padre sia ritornato? - E rialzato il viso, stette a aspettar la
risposta.
La ragazza lo guardò, pensierosa, e non disse nulla.
Il padre rimase turbato.
La maestra rise. Poi disse: - Buon uomo, non vi risponde perché non ha visto i
movimenti delle vostre labbra: le avete parlato all'orecchio! Ripetete la
domanda tenendo bene il vostro viso davanti al suo.
Il padre, guardandola bene in faccia, ripeté: - Sei contenta che tuo padre sia
ritornato? che non se ne vada più via?
La ragazza, che gli aveva guardato attenta le labbra, cercando anche di vedergli
dentro alla bocca, rispose francamente:
- Sì, so-no contenta, che sei tor-na-to, che non vai via... mai più.
Il padre l'abbracciò impetuosamente, e poi in fretta e in furia, per accertarsi
meglio, la affollò di domande.
- Come si chiama la mamma?
- An-tonia.
- Come si chiama la tua sorella piccola?
- A-de-laide.
- Come si chiama questo collegio?
- Dei sor-do-muti.
- Quanto fa due volte dieci?
- Venti.
Mentre credevamo che ridesse di gioia, tutt'a un tratto si mise a piangere. Ma
era gioia anche quella.
- Animo, - gli disse la maestra, - avete motivo di rallegrarvi, non di piangere.
Vedete che fate piangere anche la vostra figliuola. Siete contento, dunque?
Il giardiniere afferrò la mano alla maestra e gliela baciò due o tre volte
dicendo: - Grazie, grazie, cento volte grazie, mille volte grazie, cara signora
maestra! E mi perdoni che non le so dir altro!
- Ma non solo parla, - gli disse la maestra; - la vostra figliuola sa scrivere.
Sa far di conto. Conosce il nome di tutti gli oggetti usuali. Sa un poco di
storia e di geografia. Ora è nella classe normale. Quando avrà fatte le altre
due classi, saprà molto, molto di più. Uscirà di qui che sarà in grado di
prendere una professione. Ci abbiamo già dei sordomuti che stanno nelle botteghe
a servir gli avventori, e fanno i loro affari come gli altri.
Il giardiniere rimase stupito daccapo. Pareva che gli si confondessero le idee
un'altra volta. Guardò la figliuola e si grattò la fronte. Il suo viso domandava
ancora una spiegazione.
Allora la maestra si voltò al custode e gli disse:
- Chiamatemi una bimba della classe preparatoria.
Il custode tornò poco dopo con una sordomuta di otto o nove anni, entrata da
pochi giorni nell'istituto.
- Questa, - disse la maestra, - è una di quelle a cui insegniamo i primi
elementi. Ecco come si fa. Voglio farle dire e. State attento. - La
maestra aperse la bocca, come si apre per pronunciare la vocale e, e
accennò alla bimba che aprisse la bocca nella stessa maniera. La bimba obbedì.
Allora la maestra le fece cenno che mettesse fuori la voce. Quella mise fuori la
voce, ma invece di e, pronunziò o. - No, - disse la maestra, - non
è questo. - E pigliate le due mani della bimba, se ne mise una aperta sulla gola
e l'altra sul petto, e ripeté: - e. - La bimba, sentito con le mani il
movimento della gola e del petto della maestra, riaperse la bocca come prima, e
pronunziò benissimo: - e. - Nello stesso modo la maestra le fece dire
c e d, sempre tenendosi le due piccole mani sul petto e sulla gola. -
Avete capito ora? - domandò.
Il padre aveva capito; ma pareva più meravigliato di quando non capiva. - E
insegnano a parlare in quella maniera? - domandò, dopo un minuto di riflessione,
guardando la maestra. - Hanno la pazienza d'insegnare a parlare a quella
maniera, a poco a poco, a tutti quanti? a uno a uno?... per anni e anni?... Ma
loro sono santi, sono! Ma loro sono angeli del paradiso! Ma non c'è al mondo una
ricompensa, per loro! Che cosa ho da dire?... Ah! mi lascino un poco con la mia
figliuola, ora. Me la lascino cinque minuti per me solo.
E tiratala a sedere in disparte cominciò a interrogarla, e quella a rispondere,
ed egli rideva con gli occhi lustri, battendosi i pugni sulle ginocchia, e
pigliava la figliuola con le mani, guardandola, fuor di sé dalla contentezza a
sentirla, come se fosse una voce che venisse dal cielo; poi domandò alla
maestra: - Il signor Direttore, sarebbe permesso di ringraziarlo?
- Il Direttore non c'è, - rispose la maestra. - Ma c'è un'altra persona che
dovreste ringraziare. Qui ogni ragazza piccola è data in cura a una compagna più
grande, che le fa da sorella, da madre. La vostra è affidata a una sordomuta di
diciassette anni, figliuola d'un fornaio, che è buona e le vuol bene molto: da
due anni va a aiutarla a vestirsi ogni mattina, la pettina, le insegna a cucire,
le accomoda la roba, le tien buona compagnia. Luigia, come si chiama la tua
mamma dell'istituto?
La ragazza sorrise e rispose: - Cate-rina Gior-dano. - Poi disse a suo padre: -
Mol-to, mol-to buona.
Il custode, uscito a un cenno della maestra, ritornò quasi subito con una
sordomuta bionda, robusta di viso allegro, vestita anch'essa di rigatino
rossiccio col grembiale grigio; la quale si arrestò sull'uscio e arrossì; poi
chinò la testa, ridendo. Aveva il corpo d'una donna, e pareva una bambina.
La figliuola di Giorgio le corse subito incontro, la prese per un braccio come
una bimba e la tirò davanti a suo padre, dicendo con la sua grossa voce: -
Ca-te-rina Gior-dano.
- Ah! la brava ragazza! - esclamò il padre, e allungò la mano per carezzarla, ma
la tirò indietro, e ripeté: - Ah! la buona ragazza, che Dio la benedica, che le
dia tutte le fortune, tutte le consolazioni, che la faccia sempre felice lei e
tutti i suoi, una buona ragazza così, povera la mia Gigia, è un onesto operaio,
un povero padre di famiglia che glielo augura di tutto cuore!
La ragazza grande accarezzava la piccola, sempre tenendo il viso basso e
sorridendo; e il giardiniere continuava a guardarla, come una madonna.
- Oggi vi potete pigliar con voi la vostra figliuola, - disse la maestra.
- Se me la piglio! - rispose il giardiniere. - Me la conduco a Condove e la
riporto domani mattina. Si figuri un po' se non me la piglio! - La figliuola
scappò a vestirsi. - Dopo tre anni che non la vedo! - riprese il giardiniere. -
Ora che parla! A Condove subito me la porto. Ma prima voglio far un giro per
Torino con la mia mutina a braccetto, che tutti la vedano, e condurla dalle mie
quattro conoscenze, che la sentano! Ah! la bella giornata! Questa si chiama una
consolazione.! Qua il braccio a tuo padre, Gigia mia! - La ragazza, ch'era
tornata con una mantellina e una cuffietta, gli diede il braccio.
- E grazie a tutti! - disse il padre di sull'uscio. - Grazie a tutti con tutta
l'anima mia! Tornerò ancora una volta a ringraziar tutti!
Rimase un momento sopra pensiero, poi si staccò bruscamente dalla ragazza, tornò
indietro frugandosi con una mano nella sottoveste, e gridò come un furioso: -
Ebbene, sono un povero diavolo, ma ecco qui, lascio venti lire per l'istituto,
un marengo d'oro bell'e nuovo.
E dando un gran colpo sul tavolino, vi lasciò il marengo.
- No, no, brav'uomo, - disse la maestra commossa. - Ripigliatevi il vostro
denaro. Io non lo posso accettare. Ripigliatevelo. Non tocca a me. Verrete
quando ci sarà il Direttore. Ma non accetterà nemmeno lui, statene sicuro. Avete
faticato troppo per guadagnarveli, pover'uomo. Vi saremo tutti grati lo stesso.
- No, io lo lascio, - rispose il giardiniere, intestato; - e poi... si vedrà.
Ma la maestra gli rimise la moneta in tasca senza lasciargli il tempo di
respingerla.
E allora egli si rassegnò, crollando il capo; e poi, rapidamente, mandato un
bacio con la mano alla maestra e alla ragazza grande, e ripreso il braccio della
sua figliuola, si slanciò con lei fuor della porta dicendo: - Vieni, vieni,
figliuola mia, povera mutina mia, mio tesoro!
E la figliuola esclamò con la sua voce grossa: - Oh-che-bel-sole!
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