FEBBRAIO
FEBBRAIO
Una
medaglia ben data
4, sabato
Questa
mattina venne a dar le medaglie il Sovrintendente scolastico, un signore con la
barba bianca, vestito di nero. Entrò col Direttore, poco prima del finis,
e sedette accanto al maestro. Interrogò parecchi, poi diede la prima medaglia a
Derossi, e prima di dar la seconda, stette qualche momento a sentire il maestro
e il Direttore, che gli parlavano a voce bassa. Tutti domandavano: - A chi darà
la seconda? - Il Sovrintendente disse a voce alta: - La seconda medaglia l'ha
meritata questa settimana l'alunno Pietro Precossi: meritata per i lavori di
casa, per le lezioni, per la calligrafia, per la condotta, per tutto. - Tutti si
voltarono a guardar Precossi, si vedeva che ci avevan tutti piacere. Precossi
s'alzò, confuso che non sapeva più dove fosse. - Vieni qua, - disse il
Sovrintendente. Precossi saltò giù dal banco e andò accanto al tavolino del
maestro. Il sovrintendente guardò con attenzione quel visino color di cera, quel
piccolo corpo insaccato in quei panni rimboccati e disadatti, quegli occhi buoni
e tristi, che sfuggivano i suoi, ma che lasciavano indovinare una storia di
patimenti, poi gli disse con voce piena di affetto, attaccandogli la medaglia
alla spalla: - Precossi, ti dò la medaglia. Nessuno è più degno di te di
portarla. Non la dò soltanto alla tua intelligenza e al tuo buon volere, la dò
al tuo cuore, la dò al tuo coraggio, al tuo carattere di bravo e buon figliuolo.
Non è vero, - soggiunse, voltandosi verso la classe, - che egli la merita anche
per questo? - Sì, sì, - risposero tutti a una voce. Precossi fece un movimento
del collo come per inghiottire qualche cosa, e girò sui banchi uno sguardo
dolcissimo, che esprimeva una gratitudine immensa. - Va', dunque, gli disse il
Sovrintendente, - caro ragazzo! E Dio ti protegga! - Era l'ora d'uscire. La
nostra classe uscì avanti le altre. Appena siamo fuori dell'uscio... chi vediamo
lì nel camerone, proprio sull'entrata? Il padre di Precossi, il fabbro ferraio,
pallido, come al solito, col viso torvo, coi capelli negli occhi, col berretto
per traverso, malfermo sulle gambe. Il maestro lo vide subito e parlò
nell'orecchio al Sovrintendente; questi cercò Precossi in fretta e, presolo per
mano, lo condusse da suo padre. Il ragazzo tremava. Anche il maestro e il
Direttore s'avvicinarono, molti ragazzi si fecero intorno. - Lei è il padre di
questo ragazzo, è vero? - domandò il Sovrintendente al fabbro, con fare allegro,
come se fossero amici. E senz'aspettar la risposta: - Mi rallegro con lei.
Guardi: egli ha guadagnato la seconda medaglia, sopra cinquantaquattro compagni;
l'ha meritata nella composizione, nell'aritmetica, in tutto. É un ragazzo pieno
d'intelligenza e di buona volontà, che farà molto cammino: un bravo ragazzo, che
ha l'affezione e la stima di tutti; lei ne può andar superbo, gliel'assicuro. -
Il fabbro, che era stato a sentire con la bocca aperta, guardò fisso il
Sovrintendente e il Direttore, e poi fissò il suo figliuolo, che gli stava
davanti, con gli occhi bassi, tremando; e come se ricordasse e capisse allora
per la prima volta tutto quello che aveva fatto soffrire a quel povero piccino,
e tutta la bontà, tutta la costanza eroica con cui egli aveva sofferto, mostrò a
un tratto nel viso una certa meraviglia stupida, poi un dolore accigliato,
infine una tenerezza violenta e triste, e con un rapido gesto afferrò il ragazzo
per il capo e se lo strinse sul petto. Noi gli passammo tutti davanti; io
l'invitai a venir a casa giovedì, con Garrone e Crossi; altri lo salutarono; chi
gli faceva una carezza, chi gli toccava la medaglia, tutti gli dissero qualche
cosa. E il padre guardava stupito, tenendosi sempre serrato al petto il capo del
figliuolo, che singhiozzava.
Buoni propositi
5, domenica
M'ha
destato un rimorso quella medaglia data a Precossi. Io che non ne ho ancora
guadagnata una! Io da un po' di tempo non studio, e sono scontento di me, e il
maestro, mio padre e mia madre sono scontenti. Non provo più neppure il piacere
di prima a divertirmi, quando lavoravo di voglia, e poi saltavo su dal tavolino
e correvo ai miei giochi pieno d'allegrezza, come se non avessi più giocato da
un mese. Neanche a tavola coi miei non mi siedo più con la contentezza d'una
volta. Sempre ho come un'ombra nell'animo, una voce dentro che mi dice
continuamente: - non va, non va. - Vedo la sera passar per la piazza tanti
ragazzi che tornan dal lavoro, in mezzo a gruppi d'operai tutti stanchi ma
allegri, che allungano il passo, impazienti di arrivar a casa a mangiare, e
parlano forte, ridendo, e battendosi sulle spalle le mani nere di carbone o
bianche di calce, e penso che hanno lavorato dallo spuntar dell'alba fino a
quell'ora; e con quelli tanti altri anche più piccoli, che tutto il giorno son
stati sulle cime dei tetti, davanti alle fornaci, in mezzo alle macchine, e
dentro all'acqua, e sotto terra, non mangiando che un po' di pane; e provo quasi
vergogna, io che in tutto quel tempo non ho fatto che scarabocchiare di mala
voglia quattro paginuccie. Ah sono scontento, scontento! Io vedo bene che mio
padre è di malumore, e vorrebbe dirmelo, ma gli rincresce, e aspetta ancora;
caro padre mio, che lavori tanto! Tutto è tuo, tutto quello che mi vedo intorno
in casa, tutto quello che tocco, tutto quello che mi veste e che mi ciba, tutto
quello che mi ammaestra e mi diverte, tutto è frutto del tuo lavoro, ed io non
lavoro, tutto t'è costato pensieri, privazioni, dispiaceri, fatiche, e io non
fatico! Ah no, è troppo ingiusto e mi fa troppa pena. Io voglio cominciare da
oggi, voglio mettermi a studiare, come Stardi, coi pugni serrati e coi denti
stretti, mettermici con tutte le forze della mia volontà e del mio cuore; voglio
vincere il sonno la sera, saltar giù presto la mattina, martellarmi il cervello
senza riposo, sferzare la pigrizia senza pietà, faticare, soffrire anche,
ammalarmi; ma finire una volta di trascinare questa vitaccia fiacca e svogliata
che avvilisce me e rattrista gli altri. Animo, al lavoro! Al lavoro con tutta
l'anima e con tutti i nervi! Al lavoro che mi renderà il riposo dolce, i giochi
piacevoli, il desinare allegro; al lavoro che mi ridarà il buon sorriso del mio
maestro e il bacio benedetto di mio padre.
Il
vaporino
10, venerdì
Precossi venne a casa ieri, con Garrone. Io credo che se fossero stati due
figliuoli di principi non sarebbero stati accolti con più festa. Garrone era la
prima volta che veniva, perché è un po' orso, e poi si vergogna di lasciarsi
vedere, che è così grande e fa ancora la terza. Andammo tutti ad aprir la porta,
quando suonarono. Crossi non venne perché gli è finalmente arrivato il padre
dall'America, dopo sei anni. Mia madre baciò subito Precossi mio padre le
presentò Garrone, dicendo: - Ecco qui; questo non è solamente un buon ragazzo;
questo è un galantuomo e un gentiluomo. - Ed egli abbassò la sua grossa testa
rapata, sorridendo di nascosto con me. Precossi aveva la sua medaglia, ed era
contento perché suo padre s'è rimesso a lavorare, e son cinque giorni che non
beve più, lo vuol sempre nell'officina a tenergli compagnia, e pare un altro. Ci
mettemmo a giocare, io tirai fuori tutte le cose mie; Precossi rimase incantato
davanti al treno della strada ferrata, con la macchina che va da sé, a darle la
corda; non n'aveva visto mai; divorava con gli occhi quei vagoncini rossi e
gialli. Io gli diedi la chiavetta perché giocasse, egli s'inginocchiò a giocare,
e non levò più la testa. Non l'avevo mai visto contento così. Sempre diceva: -
Scusami, scusami, - a ogni proposito, facendoci in là con le mani, perché non
fermassimo la macchina, e poi pigliava e rimetteva i vagoncini con mille
riguardi, come se fossero di vetro, aveva paura di appannarli col fiato, e li
ripuliva, guardandoli di sotto e di sopra, e sorridendo da sé. Noi, tutti in
piedi, lo guardavamo; guardavamo quel collo sottile, quelle povere orecchine che
un giorno io avevo visto sanguinare, quel giacchettone con le maniche
rimboccate, da cui uscivano due braccini di malato, che s'erano alzati tante
volte per difendere il viso dalle percosse... Oh! in quel momento io gli avrei
gettato ai piedi tutti i miei giocattoli e tutti i miei libri, mi sarei
strappato di bocca l'ultimo pezzo di pane per darlo a lui, mi sarei spogliato
per vestirlo, mi sarei buttato in ginocchio per baciargli le mani - Almeno il
treno glielo voglio dare, - pensai; ma bisognava chiedere il permesso a mio
padre. In quel momento mi sentii mettere un pezzetto di carta in una mano;
guardai: era scritto da mio padre col lapis; diceva: - A Precossi piace il
tuo treno. Egli non ha giocattoli. Non ti suggerisce nulla il tuo cuore? -
Subito io afferrai a due mani la macchina e i vagoni e gli misi ogni cosa sulle
braccia dicendogli: - Prendilo, è tuo. - Egli mi guardò, non capiva. - É tuo, -
dissi, - te lo regalo. - Allora egli guardò mio padre e mia madre, ancora più
stupito, e mi domandò: - Ma perché? - Mio padre gli disse: - Te lo regala Enrico
perché è tuo amico, perché ti vuol bene... per festeggiare la tua medaglia. -
Precossi domandò timidamente: - Debbo portarlo via... a casa? - Ma sicuro! -
rispondemmo tutti. Era già sull'uscio, e non osava ancora andarsene. Era felice!
Domandava scusa, con la bocca che tremava e rideva. Garrone lo aiutò a
rinvoltare il treno nel fazzoletto, e chinandosi, fece crocchiare i grissini che
gli empivan le tasche. - Un giorno, - mi disse Precossi, - verrai all'officina a
veder mio padre a lavorare. Ti darò dei chiodi. - Mia madre mise un mazzettino
nell'occhiello della giacchetta a Garrone perché lo portasse alla mamma in nome
suo. Garrone le disse col suo vocione: - Grazie, - senza alzare il mento dal
petto. Ma gli splendeva tutta negli occhi l'anima nobile e buona.
Superbia
11, sabato
E dire
che Carlo Nobis si pulisce la manica con affettazione quando Precossi lo tocca,
passando! Costui è la superbia incarnata perché suo padre è un riccone. Ma anche
il padre di Derossi è ricco! Egli vorrebbe avere un banco per sé solo, ha paura
che tutti lo insudicino, guarda tutti dall'alto al basso, ha sempre un sorriso
sprezzante sulle labbra: guai a urtargli un piede quando s'esce in fila a due a
due! Per un nulla butta in viso una parola ingiuriosa o minaccia di far venire
alla scuola suo padre. E sì che suo padre gli ha dato la sua brava polpetta
quando trattò da straccione il figliuolo del carbonaio! Io non ho mai visto una
muffa compagna! Nessuno gli parla, nessuno gli dice addio quando s'esce, non c'è
un cane che gli suggerisce quando non sa la lezione. E lui non può patir
nessuno, e finge di disprezzar sopra tutti Derossi, perché è il primo, e Garrone
perché tutti gli voglion bene. Ma Derossi non lo guarda neppure quant'è lungo, e
Garrone, quando gli riportarono che Nobis sparlava di lui, rispose: - Ha una
superbia così stupida che non merita nemmeno i miei scapaccioni. - Coretti pure,
un giorno ch'egli sorrideva con disprezzo del suo berretto di pel di gatto, gli
disse: - Va' un poco da Derossi a imparare a far il signore! - Ieri si lamentò
col maestro perché il calabrese gli toccò una gamba col piede. Il maestro
domandò al calabrese: - L'hai fatto apposta? - No, signore, - rispose franco. E
il maestro: - Siete troppo permaloso, Nobis. - E Nobis, con quella sua aria: -
Lo dirò a mio padre. - Allora il maestro andò in collera: - Vostro padre vi darà
torto, come fece altre volte. E poi non c'è che il maestro, in iscuola, che
giudichi e punisca. - Poi soggiunse con dolcezza: - Andiamo, Nobis, cambiate
modi, siate buono e cortese coi vostri compagni. Vedete, ci sono dei figliuoli
d'operai e di signori, dei ricchi e dei poveri, e tutti si voglion bene, si
trattan da fratelli, come sono. Perché non fate anche voi come gli altri? Vi
costerebbe così poco farvi benvolere da tutti, e sareste tanto più contento voi
pure!... Ebbene, non avete nulla da rispondermi? - Nobis, ch'era stato a sentire
col suo solito sorriso sprezzante, rispose freddamente: - No, signore. - Sedete,
- gli disse il maestro. - Vi compiango. Siete un ragazzo senza cuore. - Tutto
pareva finito così; ma il muratorino, che è nel primo banco, voltò la sua faccia
tonda verso Nobis, che è nell'ultimo, e gli fece un muso di lepre così bello e
così buffo, che tutta la classe diede in una sonora risata. Il maestro lo
sgridò; ma fu costretto a mettersi una mano sulla bocca per nascondere il riso.
E Nobis pure fece un riso; ma di quello che non si cuoce.
I
feriti del lavoro
13, lunedì
Nobis
può fare il paio con Franti: non si commossero né l'uno né l'altro, questa
mattina, davanti allo spettacolo terribile che ci passò sotto gli occhi. Uscito
dalla scuola, stavo con mio padre a guardar certi birbaccioni della seconda, che
si buttavan ginocchioni per terra a strofinare il ghiaccio con le mantelline e
con le berrette, per far gli sdruccioloni più lesti, quando vedemmo venir d'in
fondo alla strada una folla di gente, a passo affrettato, tutti seri e come
spaventati, che parlavano a voce bassa. Nel mezzo c'erano tre guardie
municipali, dietro alle guardie, due uomini che portavano una barella. I ragazzi
accorsero da ogni parte. La folla s'avanzava verso di noi. Sulla barella c'era
disteso un uomo, bianco come un cadavere, con la testa ripiegata sopra una
spalla, coi capelli arruffati e insanguinati, che perdeva sangue dalla bocca e
dalle orecchie; e accanto alla barella camminava una donna con un bimbo in
braccio che pareva pazza e gridava di tratto in tratto: - É morto! É morto! É
morto! - Dietro alla donna veniva un ragazzo, che aveva la cartella sotto il
braccio, e singhiozzava. - Cos'è stato? - domandò mio padre. Un vicino rispose
che era un muratore, caduto da un quarto piano, mentre lavorava. I portatori
della barella si soffermarono un momento. Molti torsero il viso inorriditi. Vidi
la maestrina della penna rossa che sorreggeva la mia maestra di prima superiore
quasi svenuta. Nello stesso tempo mi sentii urtare nel gomito: era il muratorino,
pallido, che tremava da capo a piedi. Egli pensava a suo padre, certo. Anch'io
ci pensai. Io sto con l'animo in pace, almeno, quando sono a scuola, io so che
mio padre è a casa, seduto a tavolino, lontano da ogni pericolo; ma quanti miei
compagni pensano che i loro padri lavorano sopra un ponte altissimo o vicino
alle ruote d'una macchina, e che un gesto, un passo falso può costar loro la
vita! Sono come tanti figliuoli di soldati, che abbiano i loro padri in
battaglia. Il muratorino guardava, guardava, e tremava sempre più forte, e mio
padre se n'accorse e gli disse: - Vattene a casa, ragazzo, va subito da tuo
padre, che lo troverai sano e tranquillo; va'! - Il muratorino se n'andò
voltandosi indietro a ogni passo. E intanto la folla si rimise in moto, e la
donna gridava, da straziar l'anima: - É morto! É morto! É morto! - No, no, non è
morto, - le dicevan da tutte la parti. Ma essa non ci badava e si strappava i
capelli. Quando sentii una voce sdegnata che disse: - Tu ridi! - e vidi nello
stesso tempo un uomo barbuto che guardava in faccia Franti, il quale sorrideva
ancora. Allora l'uomo gli cacciò in terra il berretto con un ceffone, dicendo: -
Scopriti il capo, malnato, quando passa un ferito del lavoro! - La folla era già
passata tutta, e si vedeva in mezzo alla strada una lunga striscia di sangue.
Il
prigioniero
17, venerdì
Ah!
questo è certamente il caso più strano di tutto l'anno! Mio padre mi condusse
ieri mattina nei dintorni di Moncalieri, a vedere una villa da prendere a
pigione per l'estate prossima, perché quest'anno non andiamo più a Chieri; e si
trovò che chi aveva le chiavi era un maestro, il quale fa da segretario al
padrone. Egli ci fece vedere la casa, e poi ci condusse nella sua camera, dove
ci diede da bere. C'era sul tavolino, in mezzo ai bicchieri, un calamaio di
legno, di forma conica, scolpito in una maniera singolare. Vedendo che mio padre
lo guardava, il maestro gli disse: - Quel calamaio lì mi è prezioso: se sapesse,
signore, la storia di quel calamaio! - E la raccontò: Anni sono, egli era
maestro a Torino, e andò per tutto un inverno a far lezione ai prigionieri,
nelle Carceri giudiziarie. Faceva lezione nella chiesa delle carceri, che è un
edificio rotondo, e tutt'intorno, nel muri alti e nudi, ci son tanti finestrini
quadrati, chiusi da due sbarre di ferro incrociate, a ciascuno dei quali
corrisponde di dentro una piccolissima cella. Egli faceva lezione passeggiando
per la chiesa fredda e buia, e i suoi scolari stavano affacciati a quelle buche,
coi quaderni contro le inferriate, non mostrando altro che i visi nell'ombra,
dei visi sparuti e accigliati, delle barbe arruffate e grigie, degli occhi fissi
d'omicidi e di ladri. Ce n'era uno, fra gli altri, al numero 78, che stava più
attento di tutti, e studiava molto, e guardava il maestro con gli occhi pieni di
rispetto e di gratitudine. Era un giovane con la barba nera, più disgraziato che
malvagio, un ebanista, il quale, in un impeto di collera, aveva scagliato una
pialla contro il suo padrone, che da un pezzo lo perseguitava, e l'aveva ferito
mortalmente al capo; e per questo era stato condannato a vari anni di
reclusione. In tre mesi egli aveva imparato a leggere e a scrivere, e leggeva
continuamente, e quanto più imparava, tanto più pareva che diventasse buono e
che fosse pentito del suo delitto. Un giorno, sul finire della lezione, egli
fece cenno al maestro che s'avvicinasse al finestrino, e gli annunziò, con
tristezza, che la mattina dopo sarebbe partito da Torino, per andare a scontare
la sua pena nelle carceri di Venezia; e dettogli addio, lo pregò con voce umile
e commossa che si lasciasse toccare la mano. Il maestro ritirò la mano: era
bagnata di lacrime. Dopo d'allora non lo vide più. Passarono sei anni. -
"Io
pensavo a tutt'altro che a quel disgraziato, - disse il maestro, - quando ieri
l'altro mattina mi vedo capitare a casa uno sconosciuto, con una gran barba
nera, già un po' brizzolata, vestito malamente; il quale mi dice: - É lei
signore, il maestro tale dei tali? - Chi siete? - gli domando io - Sono il
carcerato del numero 78, - mi riponde; - m'ha insegnato lei a leggere e a
scrivere, sei anni fa: se si rammenta, all'ultima lezione m'ha dato la mano: ora
ho scontato la mia pena e son qui... a pregarla che mi faccia la grazia
d'accettare un mio ricordo, una cosuccia che ho lavorato in prigione. La vuol
accettare per mia memoria, signor maestro? - Io rimasi lì, senza parola. Egli
credette che non volessi accettare, e mi guardò, come per dire: - Sei anni di
patimenti non sono dunque bastati a purgarmi le mani! - ma con espressione così
viva di dolore mi guardò, che tesi subito la mano e presi l'oggetto. Eccolo qui."
Guardammo attentamente il calamaio: pareva stato lavorato con la punta d'un
chiodo, con lunghissima pazienza; c'era su scolpita una penna a traverso a un
quaderno, e scritto intorno:
"Al
mio maestro. - Ricordo del numero 78 - Sei anni"
- E sotto, in piccoli caratteri: -
"Studio
e speranza...".
Il maestro non disse altro; ce n'andammo. Ma per tutto il tragitto da Moncalieri
a Torino, io non potei più levarmi dal capo quel prigionero affacciato al
finestrino, quell'addio al maestro, quel povero calamaio lavorato in carcere,
che diceva tante cose, e lo sognai la notte, e ci pensavo ancora questa
mattina... quanto lontano dall'immaginare la sorpresa che m'aspettava alla
scuola! Entrato appena nel mio nuovo banco, accanto a Derossi, e scritto il
problema d'aritmetica dell'esame mensile, raccontai al mio compagno tutta la
storia del prigioniero e del calamaio e come il calamaio era fatto, con la penna
a traverso al quaderno, e quell'iscrizione intorno: - Sei anni! - Derossi
scattò a quelle parole, e cominciò a guardare ora me ora Crossi, il figliuolo
dell'erbivendola, che era nel banco davanti, con la schiena rivolta a noi, tutto
assorto nel suo problema. - Zitto! - disse poi, a bassa voce, pigliandomi per un
braccio. - Non sai? Crossi mi disse avant'ieri d'aver visto di sfuggita un
calamaio di legno tra le mani di suo padre ritornato dall'America: un calamaio
conico, lavorato a mano, con un quaderno e una penna: - è quello; - sei anni!
- egli diceva che suo padre era in America: - era invece in prigione; - Crossi
era piccolo al tempo del delitto, non si ricorda, sua madre lo ingannò, egli non
sa nulla; non ci sfugga una sillaba di questo! - Io rimasi senza parola, con gli
occhi fissi su Crossi. E allora Derossi risolvette il problema e lo passò sotto
il banco a Crossi; gli diede un foglio di carta; gli levò di mano
L'Infermiere di Tata, il racconto mensile, che il maestro gli aveva dato a
ricopiare, per ricopiarlo lui in sua vece; gli regalò dei pennini, gli accarezzò
la spalla, mi fece promettere sul mio onore che non avrei detto nulla a nessuno;
e quando uscimmo dalla scuola mi disse in fretta: - Ieri suo padre è venuto a
prenderlo, ci sarà anche questa mattina: fa come faccio io. Uscimmo nella
strada, il padre di Crossi era là, un po' in disparte: un uomo con la barba
nera, già un po' brizzolata, vestito malamente, con un viso scolorito e
pensieroso. Derossi strinse la mano a Crossi; in modo da farsi vedere, e gli
disse forte: - A riverderci, Crossi, - e gli passò la mano sotto mento, io feci
lo stesso. Ma facendo quello, Derossi diventò color di porpora, io pure; e il
padre di Crossi ci guardò attentamente, con uno sguardo benevolo; ma in cui
traluceva un'espressione d'inquietudine e di sospetto, che ci mise freddo nel
cuore.
L'infermiere di Tata
Racconto mensile
La
mattina d'un giorno piovoso di marzo, un ragazzo vestito da campagnuolo, tutto
inzuppato d'acqua e infangato, con un involto di panni sotto il braccio, si
presentava al portinaio dell'Ospedale maggiore di Napoli e domandava di suo
padre, presentando una lettera. Aveva un bel viso ovale d'un bruno pallido, gli
occhi pensierosi e due grosse labbra semiaperte, che lasciavan vedere i denti
bianchissimi. Veniva da un villaggio dei dintorni di Napoli. Suo padre, partito
di casa l'anno addietro per andare a cercar lavoro in Francia, era tornato in
Italia e sbarcato pochi dì prima a Napoli, dove, ammalatosi improvvisamente,
aveva appena fatto in tempo a scrivere un rigo alla famiglia per annunziarle il
suo arrivo e dirle che entrava all'ospedale. Sua moglie, desolata di quella
notizia, non potendo moversi di casa perché aveva una bimba inferma e un'altra
al seno, aveva mandato a Napoli il figliuolo maggiore, con qualche soldo, ad
assistere suo padre, il suo Tata, come là si dice; il ragazzo aveva fatto
dieci miglia di cammino.
Il portinaio, data un'occhiata alla lettera, chiamò un infermiere e gli disse
che conducesse il ragazzo dal padre.
- Che padre? - domandò l'infermiere.
Il ragazzo, tremante per il timore d'una trista notizia, disse il nome.
L'infermiere non si rammentava quel nome.
- Un vecchio operaio venuto di fuori? - domandò.
- Operaio sì, - rispose il ragazzo, sempre più ansioso; non tanto vecchio.
Venuto di fuori, sì.
- Entrato all'ospedale quando? - domandò l'infermiere.
Il ragazzo diede uno sguardo alla lettera. - Cinque giorni fa, credo.
L'infermiere stette un po' pensando; poi, come ricordandosi a un tratto: - Ah! -
disse, - il quarto camerone, il letto in fondo.
- É
malato molto? Come sta? - domandò affannosamente il ragazzo.
L'infermiere lo guardò, senza rispondere. Poi disse: - Vieni con me.
Salirono due branche di scale, andarono in fondo a un largo corridoio e si
trovarono in faccia alla porta aperta d'un camerone, dove s'allungavano due file
di letti. - Vieni, - ripeté l'infermiere, entrando. Il ragazzo si fece animo e
lo seguitò, gettando sguardi paurosi a destra e a sinistra, sui visi bianchi e
smunti dei malati, alcuni dei quali avevan gli occhi chiusi, e parevano morti,
altri guardavan per aria con gli occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi
gemevano, come bambini. Il camerone era oscuro, l'aria impregnata d'un odore
acuto di medicinali. Due suore di carità andavano attorno con delle boccette in
mano.
Arrivato in fondo al camerone, l'infermiere si fermò al capezzale d'un letto,
aperse le tendine e disse: - Ecco tuo padre.
Il ragazzo diede in uno scoppio di pianto, e lasciato cadere l'involto,
abbandonò la testa sulla spalla del malato, afferrandogli con una mano il
braccio che teneva disteso immobile sopra la coperta. Il malato non si scosse.
Il ragazzo si rialzò e guardò il padre, e ruppe in pianto un'altra volta. Allora
il malato gli rivolse uno sguardo lungo e parve che lo riconoscesse. Ma le sue
labbra non si muovevano. Povero Tata, quanto era mutato! Il figliuolo non
l'avrebbe mai riconosciuto. Gli s'erano imbiancati i capelli, gli era cresciuta
la barba, aveva il viso gonfio, d'un color rosso carico, con la pelle tesa e
luccicante, gli occhi rimpiccioliti, le labbra ingrossate, la fisionomia tutta
alterata: non aveva più di suo che la fronte e l'arco delle sopracciglia.
Respirava con affanno. - Tata, tata mio! - disse il ragazzo. - Son io, non mi
riconoscete? Sono Cicillo, il vostro Cicillo, venuto dal paese, che m'ha mandato
la mamma. Guardatemi bene, non mi riconoscete? Ditemi una parola.
Ma il malato, dopo averlo guardato attentamente, chiuse gli occhi.
- Tata! Tata! che avete? Sono il vostro figliuolo, Cicillo vostro.
Il malato non si mosse più, e continuò a respirare affannosamente.
Allora, piangendo, il ragazzo prese una seggiola, sedette e stette aspettando,
senza levar gli occhi dal viso di suo padre. - Un medico passerà bene a far la
visita, - pensava. - Egli mi dirà qualche cosa. - E s'immerse ne' suoi pensieri
tristi, ricordando tante cose del suo buon padre, il giorno della partenza,
quando gli aveva dato l'ultimo addio sul bastimento, le speranze che aveva
fondato la famiglia su quel suo viaggio, la desolazione di sua madre all'arrivo
della lettera; e pensò alla morte, vide suo padre morto, sua madre vestita di
nero, la famiglia nella miseria. E stette molto tempo così. Quando una mano
leggiera gli toccò una spalla, ed ei si riscosse: era una monaca. - Che cos'ha
mio padre? - le domandò subito. - É tuo padre? - disse la suora, dolcemente. -
Sì, è mio padre, son venuto. Che cos'ha? - Coraggio, ragazzo, - rispose la
suora; - ora verrà il medico. - E s'allontanò, senza dir altro.
Dopo mezz'ora, sentì il tocco d'una campanella, e vide entrare in fondo al
camerone il medico, accompagnato da un assistente; la suora e un infermiere li
seguivano. Cominciaron la visita, fermandosi a ogni letto. Quell'aspettazione
pareva eterna al ragazzo, e ad ogni passo del medico gli cresceva l'affanno.
Finalmente arrivò al letto vicino. Il medico era un vecchio alto e curvo, col
viso grave. Prima ch'egli si staccasse dal letto vicino, il ragazzo si levò in
piedi, e quando gli s'avvicinò, si mise a piangere.
Il medico lo guardò.
- É il figliuolo del malato - disse la suora; - è arrivato questa mattina dal
suo paese.
Il medico gli posò una mano sulla spalla, poi si chinò sul malato, gli tastò il
polso, gli toccò la fronte, e fece qualche domanda alla suora, la quale rispose:
- nulla di nuovo. Rimase un po' pensieroso, poi disse: - Continuate come prima.
Allora il ragazzo si fece coraggio e domandò con voce di pianto: - Che cos'ha
mio padre?
- Fatti animo, figliuolo, - rispose il medico, rimettendogli una mano sulla
spalla. - Ha una risipola facciale.
É
grave, ma c'è ancora speranza. Assistilo. La tua presenza gli può far del bene.
- Ma non mi riconosce! - esclamò il ragazzo in tuono desolato.
- Ti riconoscerà... domani, forse. Speriamo bene, fatti coraggio.
Il ragazzo avrebbe voluto domandar altro; ma non osò. Il medico passò oltre. E
allora egli cominciò la sua vita d'infermiere. Non potendo far altro accomodava
le coperte al malato, gli toccava ogni tanto la mano, gli cacciava i moscerini,
si chinava su di lui ad ogni gemito, e quando la suora portava da bere, le
levava di mano il bicchiere o il cucchiaio, e lo porgeva in sua vece. Il malato
lo guardava qualche volta; ma non dava segno di riconoscerlo. Senonché il suo
sguardo si arrestava sempre più a lungo sopra di lui, specialmente quando si
metteva agli occhi il fazzoletto. E così passò il primo giorno. La notte il
ragazzo dormì sopra due seggiole, in un angolo del camerone, e la mattina
riprese il suo ufficio pietoso. Quel giorno parve che gli occhi del malato
rivelassero un principio di coscienza. Alla voce carezzevole del ragazzo pareva
che un'espressione vaga di gratitudine gli brillasse un momento nelle pupille, e
una volta mosse un poco le labbra come se volesse dir qualche cosa. Dopo ogni
breve assopimento, riaprendo gli occhi, sembrava che cercasse il suo piccolo
infermiere. Il medico, ripassato due volte, notò un poco di miglioramento. Verso
sera, avvicinandogli il bicchiere alle labbra, il ragazzo credette di veder
guizzare sulle sue labbra gonfie un leggerissimo sorriso. E allora cominciò a
riconfortarsi, a sperare. E con la speranza d'essere inteso, almeno
confusamente, gli parlava, gli parlava a lungo, della mamma, delle sorelle
piccole, del ritorno a casa, e lo esortava a farsi animo, con parole calde e
amorose. E benché dubitasse sovente di non esser capito, pure parlava, perché
gli pareva che, anche non comprendendo, il malato ascoltasse con un certo
piacere la sua voce, quell'intonazione insolita di affetto e di tristezza. E in
quella maniera passò il secondo giorno, e il terzo, e il quarto, in una vicenda
di miglioramenti leggieri e di peggioramenti improvvisi; e il ragazzo era così
tutto assorto nelle sue cure, che appena sbocconcellava due volte al giorno un
po' di pane e un po' di formaggio, che gli portava la suora, e non vedeva quasi
quel che seguiva intorno a lui, i malati moribondi, l'accorrere improvviso delle
suore di notte, i pianti e gli atti di desolazione dei visitatori che uscivano
senza speranza, tutte quelle scene dolorose e lugubri della vita d'un ospedale,
che in qualunque altra occasione l'avrebbero sbalordito e atterrito. Le ore, i
giorni passavano, ed egli era sempre là col suo Tata, attento, premuroso,
palpitante ad ogni suo sospiro e ad ogni suo sguardo, agitato senza riposo tra
una speranza che gli allargava l'anima e uno sconforto che gli agghiacciava il
cuore.
Il quinto giorno, improvvisamente, il malato peggiorò.
Il medico, interrogato, scrollò il capo, come per dire che era finita, e il
ragazzo s'abbandonò sulla seggiola, rompendo in singhiozzi. Eppure una cosa lo
consolava. Malgrado che peggiorasse, a lui sembrava che il malato andasse
riacquistando lentamente un poco d'intelligenza. Egli guardava il ragazzo sempre
più fissamente e con un'espressione crescente di dolcezza, non voleva più
prender bevanda o medicina che da lui, e sempre più spesso faceva quel movimento
forzato delle labbra, come se volesse pronunciare una parola; e lo faceva così
spiccato qualche volta, che il figliuolo gli afferrava il braccio con violenza,
sollevato da una speranza improvvisa, e gli diceva con accento quasi di gioia: -
Coraggio, coraggio, Tata, guarirai, ce n'andremo, torneremo a casa con la mamma,
ancora un po' di coraggio!
Erano le quattro della sera, e allora appunto il ragazzo s'era abbandonato a uno
di quegli impeti di tenerezza e di speranza, quando di là dalla porta più vicina
del camerone udì un rumore di passi, e poi una voce forte, due sole parole: -
Arrivederci, suora! - che lo fecero balzare in piedi, con un grido strozzato
nella gola. Nello stesso momento entrò nel camerone un uomo, con un grosso
involto alla mano, seguito da una suora.
Il ragazzo gettò un grido acuto e rimase inchiodato al suo posto.
L'uomo si voltò, lo guardò un momento, gittò un grido anch'egli: - Cicillo! - e
si slanciò verso di lui.
Il ragazzo cadde fra le braccia di suo padre, soffocato. Le suore,
gl'infermieri, l'assistente accorsero, e rimasero lì, pieni di stupore.
Il ragazzo non poteva raccogliere la voce.
- Oh Cicillo mio! - esclamò il padre, dopo aver fissato uno sguardo attento sul
malato, baciando e ribaciando il ragazzo. - Cicillo, figliuol mio, come va
questo? T'hanno condotto al letto d'un altro. E io che mi disperavo di non
vederti, dopo che mamma scrisse: l'ho mandato. Povero Cicillo! Da quanti giorni
sei qui? Com'è andato questo imbroglio? Io me la son cavata con poco. Sto bene
in gamba, sai! E la mamma? E Concettella? E 'u nennillo, come vanno? Io
me n'esco dall'ospedale. Andiamo dunque. O signore Iddio! Chi l'avrebbe mai
detto!
Il ragazzo stentò a spiccicar quattro parole per dar notizie della famiglia. -
Oh come sono contento! - balbettò. - Come sono contento! Che brutti giorni ho
passati! E non rifiniva di baciar suo padre.
Ma non si muoveva.
- Vieni dunque - gli disse il padre. - Arriveremo ancora a casa stasera.
Andiamo. - E lo tirò a sé.
Il ragazzo si voltò a guardare il suo malato.
- Ma... vieni o non vieni? - gli domandò il padre, stupito.
Il ragazzo diede ancora uno sguardo al malato, il quale, in quel momento, aperse
gli occhi e lo guardò fissamente.
Allora gli sgorgò dall'anima un torrente di parole. - No, Tata, aspetta...
ecco... non posso. C'è quel vecchio. Da cinque giorni son qui. Mi guarda sempre.
Credevo che fossi tu. Gli volevo bene. Mi guarda, io gli do da bere, mi vuol
sempre accanto, ora sta molto male, abbi pazienza, non ho coraggio, non so, mi
fa troppo pena, tornerò a casa domani, lasciami star qui un altro po', non va
mica bene che lo lasci, vedi in che maniera mi guarda, io non so chi sia, ma mi
vuole, morirebbe solo, lasciami star qui, caro Tata!
- Bravo, piccerello! - gridò l'assistente.
Il padre rimase perplesso, guardando il ragazzo; poi guardò il malato. - Chi è?
- domandò.
- Un contadino come voi - rispose l'assistente, - venuto di fuori, entrato
all'ospedale lo stesso giorno che c'entraste voi. Lo portaron qui ch'era fuor di
senso, e non poté dir nulla. Forse ha una famiglia lontana, dei figliuoli.
Crederà che sia un dei suoi, il vostro.
Il malato guardava sempre il ragazzo.
Il padre disse a Cicillo: - Resta.
- Non ha più da restar che per poco, - mormorò l'assistente.
- Resta -, ripeté il padre. - Tu hai cuore. Io vado subito a casa a levar di
pena la mamma. Ecco uno scudo pei tuoi bisogni. Addio, bravo figliuolo mio. A
rivederci.
Lo abbracciò, lo guardò fisso, lo ribaciò in fronte, e partì.
Il ragazzo tornò accanto al letto, e l'infermo parve racconsolato. E Cicillo
ricominciò a far l'infermiere, non piangendo più, ma con la stessa premura, con
la stessa pazienza di prima; ricominciò a dargli da bere, ad accomodargli le
coperte, a carezzargli la mano, a parlargli dolcemente, per fargli coraggio. Lo
assistette tutto quel giorno, lo assistette tutta la notte, gli restò ancora
accanto il giorno seguente. Ma il malato s'andava sempre aggravando; il suo viso
diventava color violaceo, il suo respiro ingrossava, gli cresceva l'agitazione,
gli sfuggivan dalla bocca delle grida inarticolate, l'enfiagione si faceva
mostruosa. Alla visita della sera, il medico disse che non avrebbe passata la
notte. E allora Cicillo raddoppiò le sue cure e non lo perdette più d'occhio un
minuto. E il malato lo guardava, lo guardava, e muoveva ancora le labbra, tratto
tratto, con un grande sforzo, come se volesse dir qualche cosa, e un'espressione
di dolcezza straordinaria passava a quando a quando nei suoi occhi, che sempre
più si rimpiccolivano e s'andavano velando. E quella notte il ragazzo lo vegliò
fin che vide biancheggiare alle finestre il primo barlume di giorno, e comparire
la suora. La suora s'avvicinò al letto, diede un'occhiata al malato e andò via a
rapidi passi. Pochi momenti dopo ricomparve col medico assistente e con un
infermiere, che portava una lanterna.
- É
all'ultimo momento, - disse il medico.
Il ragazzo afferrò la mano del malato. Questi aprì gli occhi, lo fissò, e li
richiuse.
In quel punto parve al ragazzo di sentirsi stringere la mano.
- M'ha stretta la mano! - esclamò.
Il medico rimase un momento chino sul malato, poi s'alzò. La suora staccò un
crocifisso dalla parte.
- E morto! - gridò il ragazzo.
- Va', figliuolo, - disse il medico. - La tua santa opera è compiuta. Va' e abbi
fortuna, che la meriti. Dio ti proteggerà. Addio.
La suora che s'era allontanata un momento, tornò con un mazzettino di viole,
tolte da un bicchiere sulla finestra, e lo porse al ragazzo, dicendo: - Non ho
altro da darti. Tieni questo per memoria dell'ospedale.
- Grazie, - rispose il ragazzo, - pigliando il mazzetto con una mano e
asciugandosi gli occhi con l'altra; - ma ho tanta strada da fare a piedi... lo
sciuperei. - E sciolto il mazzolino sparpagliò le viole sul letto, dicendo: - Le
lascio per ricordo al mio povero morto. Grazie, sorella. Grazie, signor dottore.
- Poi, rivolgendosi al morto: - Addio... - E mentre cercava un nome da dargli,
gli rivenne dal cuore alle labbra il dolce nome che gli aveva dato per cinque
giorni: - Addio, povero Tata!
Detto questo, si mise sotto il braccio il suo involtino di panni, e a lenti
passi, rotto dalla stanchezza, se n'andò.
L'alba spuntava.
L'officina
18, sabato
Precossi venne ieri sera a rammentarmi che andassi a vedere la sua officina, che
è sotto nella strada, e questa mattina, uscendo con mio padre, mi ci feci
condurre un momento. Mentre noi ci avvicinavamo all'officina, ne usciva di corsa
Garoffi, con un pacco in mano, facendo svolazzare il suo gran mantello, che
copre le mercanzie. Ah! ora lo so dove va a raspare la limatura di ferro, che
vende per dei giornali vecchi, quel trafficone di Garoffi! Affacciandoci alla
porta, vedemmo Precossi, seduto sur una torricella di mattoni, che studiava la
lezione, col libro sulle ginocchia. S'alzò subito e ci fece entrare: era uno
stanzone pien di polvere di carbone, colle pareti tutte irte di martelli, di
tanaglie, di spranghe, di ferracci d'ogni forma, e in un angolo ardeva il fuoco
d'un fornello, in cui soffiava un mantice, tirato da un ragazzo. Precossi padre
era vicino all'incudine, e un garzone teneva una spranga di ferro nel fuoco. -
Ah! eccolo qui, - disse il fabbro appena ci vide, levandosi la berretta, - il
bravo ragazzo che regala i treni delle strade ferrate! É venuto a vedere un po'
lavorare, non è vero? Eccolo servito sul momento. - E dicendo questo sorrideva,
non aveva più quella faccia torva, quegli occhi biechi dell'altre volte. Il
garzone gli porse una lunga spranga di ferro arroventata da un capo, e il fabbro
l'appoggiò sull'incudine. Faceva una di quelle spranghe a voluta per le
ringhiere a gabbia dei terrazzini. Alzò un grosso martello e cominciò a
picchiare, spingendo la parte rovente ora di qua ora di là tra una punta
dell'incudine e il mezzo, e rigirandola in vari modi, ed era una meraviglia a
vedere come sotto ai colpi rapidi e precisi del martello il ferro s'incurvava,
s'attorceva, pigliava via via la forma graziosa della foglia arricciata d'un
fiore, come un cannello di pasta, ch'egli avesse modellato con le mani. E
intanto il suo figliuolo ci guardava, con una cert'aria altera, come per dire: -
Vedete come lavora mio padre! - Ha visto come si fa, il signorino? - mi domandò
il fabbro, quand'ebbe finito, mettendomi davanti la spranga, che pareva il
pastorale d'un vescovo. Poi la mise in disparte e ne ficcò un'altra nel fuoco. -
Ben fatto davvero, - gli disse mio padre. E soggiunse: - Dunque... si lavora,
eh? La buona voglia è tornata. - É tornata, sì - rispose l'operaio, asciugandosi
il sudore, e arrossendo un poco. - E sa chi me l'ha fatta tornare? - Mio padre
finse di non capire. - Quel bravo ragazzo, - disse il fabbro, accennando il
figliuolo col dito, - quel bravo figliuolo là, che studiava e faceva onore a suo
padre mentre suo padre... faceva baldoria e lo trattava come una bestia. Quando
ho visto quella medaglia... Ah! il piccinetto mio, alto come un soldo di cacio,
vieni un po' qua che ti guardi bene nel muso! - Il ragazzo corse subito, il
fabbro lo prese e lo mise diritto sull'incudine, tenendolo sotto le ascelle, e
gli disse: - Pulite un poco il frontespizio a questo bestione di babbo. - E
allora Precossi coprì di baci il viso nero di suo padre fin che fu anche lui
tutto nero. - Così va bene, - disse il fabbro, e lo rimise in terra. - Così va
bene davvero, Precossi! - esclamò mio padre, contento. E detto a rivederci al
fabbro e al figliuolo, mi condusse fuori. Mentre uscivo, Precossino mi disse: -
Scusami, - e mi cacciò in tasca un pacchetto di chiodi; io l'invitai a venir a
vedere il carnevale da casa mia. - Tu gli hai regalato il tuo treno di strada
ferrata, - mi disse mio padre per la strada; - ma se fosse stato d'oro e pieno
di perle, sarebbe stato ancora un piccolo regalo per quel santo figliuolo che ha
rifatto il cuore a suo padre.
Il
piccolo pagliaccio
20, lunedì
Tutta
la città è in ribollimento per il carnevale, che è sul finire, in ogni piazza si
rizzan baracche di saltimbanchi e giostre, e noi abbiamo sotto le finestre un
circo di tela, dove dà spettacolo una piccola compagnia veneziana, con cinque
cavalli. Il circo è nel mezzo della piazza, e in un angolo ci son tre carrozzoni
grandi, dove i saltimbanchi dormono e si travestono; tre casette con le ruote,
coi loro finestrini e un caminetto ciascuna, che fuma sempre; e tra finestrino e
finestrino sono stese delle fasce da bambini. C'è una donna che allatta un
putto, fa da mangiare e balla sulla corda. Povera gente! Si dice saltimbanco
come un'ingiuria; eppure si guadagnano il pane onestamente, divertendo tutti; e
come faticano! Tutto il giorno corrono tra il circo e i carrozzoni, in maglia,
con questi freddi; mangian due bocconi a scappa e fuggi, in piedi, tra una
rappresentazione e l'altra, e a volte, quando hanno già il circo affollato, si
leva un vento che strappa le tele e spegne i lumi, e addio spettacolo! debbon
rendere i denari e lavorar tutta la sera a rimetter su la baracca. Ci hanno due
ragazzi che lavorano; e mio padre riconobbe il più piccolo mentre attraversava
la piazza: è il figliuolo del padrone lo stesso che vedemmo fare i giochi a
cavallo l'anno passato, in un circo di piazza Vittorio Emanuele. É cresciuto,
avrà otto anni, è un bel ragazzo, un bel visetto rotondo e bruno di monello, con
tanti riccioli neri che gli scappan fuori dal cappello a cono. É vestito da
pagliaccio, ficcato dentro a una specie di saccone con le maniche, bianco
ricamato di nero, e ha le scarpette di tela.
É
un diavoletto. Piace a tutti. Fa di tutto. Lo vediamo ravvolto in uno scialle,
la mattina presto, che porta il latte alla sua casetta di legno; poi va a
prendere i cavalli alla rimessa di via Bertola; tiene in braccio il bimbo
piccolo; trasporta cerchi cavalletti, sbarre, corde; pulisce i carrozzoni,
accende il fuoco, e nei momenti di riposo è sempre appiccicato a sua madre. Mio
padre lo guarda sempre dalla finestra, e non fa che parlar di lui e dei suoi,
che han l'aria di buona gente, e di voler bene ai figliuoli. Una sera ci siamo
andati, al circo; faceva freddo, non c'era quasi nessuno; ma tanto il
pagliaccino si dava un gran moto per tener allegra quella po' di gente: faceva
dei salti mortali, s'attaccava alla coda dei cavalli, camminava con le gambe per
aria, tutto solo, e cantava, sempre sorridente, col suo visetto bello e bruno; e
suo padre che aveva un vestito rosso e i calzoni bianchi, con gli stivali alti e
la frusta in mano, lo guardava; ma era triste. Mio padre n'ebbe compassione, e
ne parlò il dì dopo col pittore Delis, che venne a trovarci. Quella povera gente
s'ammazza a lavorare e fa così cattivi affari! Quel ragazzino gli piaceva tanto!
Che cosa si poteva fare per loro? Il pittore ebbe un'idea. - Scrivi un bell'articolo
sulla Gazzetta, - gli disse, - tu che sai scrivere: tu racconti i
miracoli del piccolo pagliaccio e io faccio il suo ritratto; la Gazzetta
la leggon tutti, e almeno per una volta accorrerà gente. - E così fecero. Mio
padre scrisse un articolo, bello e pieno di scherzi, che diceva tutto quello che
noi vediamo dalla finestra, e metteva voglia di conoscere e di carezzare il
piccolo artista; e il pittore schizzò un ritrattino somigliante e grazioso, che
fu pubblicato sabato sera. Ed ecco, alla rappresentazione di domenica, una gran
folla che accorre al circo. Era annunziato: Rappresentazione a beneficio del
pagliaccino; del pagliaccino, com'era chiamato nella Gazzetta. Mio
padre mi condusse nei primi posti. Accanto all'entrata avevano affisso la
Gazzetta. Il circo era stipato; molti spettatori avevano la Gazzetta
in mano, e la mostravano al pagliaccino, che rideva e correva or dall'uno or
dall'altro, tutto felice. Anche il padrone era contento. Figurarsi! Nessun
giornale gli aveva mai fatto tanto onore, e la cassetta dei soldi era piena. Mi
padre sedette accanto a me. Tra gli spettatori trovammo delle persone di
conoscenza. C'era vicino all'entrata dei cavalli, in piedi, il maestro di
Ginnastica, quello che è stato con Garibaldi; e in faccia a noi, nei secondi
posti, il muratorino, col suo visetto tondo, seduto accanto a quel gigante di
suo padre... e appena mi vide, mi fece il muso di lepre. Un po' più in là vidi
Garoffi, che contava gli spettatori, calcolando sulle dita quanto potesse aver
incassato la Compagnia. C'era anche nelle seggiole dei primi posti, poco lontano
da noi, il povero Robetti, quello che salvò il bimbo dall'omnibus, con le sue
stampelle fra le ginocchia, stretto al fianco di suo padre, capitano
d'artiglieria, che gli teneva una mano sulla spalla. La rappresentazione
cominciò. Il pagliaccino fece meraviglie sul cavallo, sul trapezio e sulla
corda, e ogni volta che saltava giù, tutti gli battevan le mani e molti gli
tiravano i riccioli. Poi fecero gli esercizi vari altri, funamboli, giocolieri e
cavallerizzi, vestiti di cenci e scintillanti d'argento. Ma quando non c'era il
ragazzo, pareva che la gente si seccasse. A un certo punto vidi il maestro di
ginnastica, fermo all'entrata dei cavalli, che parlò nell'orecchio del padrone
del circo, e questi subito girò lo sguardo sugli spettatori, come se cercasse
qualcuno. Il suo sguardo si fermò su di noi. Mio padre se ne accorse, capì che
il maestro aveva detto ch'era lui l'autor dell'articolo, e per non esser
ringraziato se ne scappò via, dicendomi: - Resta, Enrico; io t'aspetto fuori. -
Il pagliaccino, dopo aver scambiato qualche parola col suo babbo, fece ancora un
esercizio: ritto sul cavallo che galoppava, si travestì quattro volte, da
pellegrino, da marinaio, da soldato, da acrobata, e ogni volta che mi passava
vicino, mi guardava. Poi, quando scese, cominciò a fare il giro del circo col
cappello da pagliaccio tra le mani, e tutti ci gettavan dentro soldi e confetti.
Io tenni pronti due soldi; ma quando fu in faccia a me, invece di porgere il
cappello, lo tirò indietro, mi guardò e passò avanti. Rimasi mortificato. Perché
m'aveva fatto quello sgarbo? La rappresentazione terminò, il padrone ringraziò
il pubblico, e tutta la gente s'alzò, affollandosi verso l'uscita. Io ero
confuso tra la folla, e stavo già per uscire, quando mi sentii toccare una mano.
Mi voltai: era il pagliaccino, col suo bel visetto bruno e i suoi riccioli neri,
che mi sorrideva: aveva le mani piene di confetti. Allora capii. - Voresistu
- mi disse - agradir sti confeti del pagiazzeto? - Io accennai di sì, e
ne presi tre o quattro. - Alora, - soggiunse - ciapa anca un baso.
- Dammene due -, risposi, e gli porsi il viso. Egli si pulì con la manica la
faccia infarinata, mi pose un braccio intorno al collo, e mi stampò due baci
sulle guance, dicendomi: - Tò, e portighene uno a to pare.
L'ultimo giorno di carnevale
21, martedì
Che
triste scena vedemmo oggi al corso delle maschere! Finì bene; ma poteva seguire
una grande disgrazia. In piazza San Carlo, tutta decorata di festoni gialli,
rossi e bianchi, s'accalcava una grande moltitudine; giravan maschere d'ogni
colore; passavano carri dorati e imbandierati, della forma di padiglioni di
teatrini e di barche, pieni d'arlecchini e di guerrieri, di cuochi, di marinai e
di pastorelle; era una confusione da non saper dove guardare; un frastuono di
trombette, di corni e di piatti turchi che lacerava le orecchie; e le maschere
dei carri trincavano e cantavano, apostrofando la gente a piedi e la gente alle
finestre, che rispondevano a squarciagola, e si tiravano a furia arancie e
confetti; e al di sopra delle carrozze e della calca, fin dove arrivava
l'occhio, si vedevano sventolar bandierine, scintillar caschi, tremolare
pennacchi, agitarsi testoni di cartapesta, gigantesche cuffie, tube enormi, armi
stravaganti, tamburelli, crotali, berrettini rossi e bottiglie: parevan tutti
pazzi. Quando la nostra carrozza entrò nella piazza, andava dinanzi a noi un
carro magnifico, tirato da quattro cavalli coperti di gualdrappe ricamate d'oro,
e tutto inghirlandato di rose finte, sul quale c'erano quattordici o quindici
signori, mascherati da gentiluomini della corte di Francia, tutti luccicanti di
seta, col parruccone bianco, un cappello piumato sotto il braccio e lo spadino,
e un arruffio di nastri e di trine sul petto: bellissimi. Cantavano tutti
insieme una canzonetta francese, e gettavan dolci alla gente, e la gente batteva
le mani e gridava. Quando a un tratto, sulla nostra sinistra, vedemmo un uomo
sollevare sopra le teste della folla una bambina di cinque o sei anni, una
poverella che piangeva disperatamente, agitando le braccia, come presa dalle
convulsioni. L'uomo si fece largo verso il carro dei signori, uno di questi si
chinò, e quell'altro disse forte: - Prenda questa bimba, ha perduto sua madre
nella folla, la tenga in braccio; la madre non può essere lontana, e la vedrà,
non c'è altra maniera. - Il signore prese la bimba in braccio; tutti gli altri
cessarono di cantare, la bimba urlava e si dibatteva, il signore si tolse la
maschera; il carro continuò a andare lentamente. In quel mentre, come ci fu
detto poi, all'estremità opposta della piazza, una povera donna mezzo impazzita
rompeva la calca a gomitate e a spintoni, urlando: - Maria! Maria! Maria! Ho
perduto la mia figliuola! Me l'hanno rubata! Mi hanno soffocato la mia bambina!
- E da un quarto d'ora smaniava, si disperava a quel modo, andando un po' di qua
e un po' di là, oppressa dalla folla, che stentava ad aprirle il passo. Il
signore del carro, intanto, si teneva la bimba stretta contro i nastri e le
trine del petto, girando lo sguardo per la piazza, e cercando di quietare la
povera creatura, che si copriva il viso con le mani, non sapendo dove fosse, e
singhiozzava da schiantarsi il cuore. Il signore era commosso, si vedeva che
quelle grida gli andavano all'anima; tutti gli altri offrivano alla bimba
arancie e confetti; ma quella respingeva tutto, sempre più spaventata e
convulsa. - Cercate la madre! gridava il signore alla folla, - cercate la madre!
- E tutti si voltavano a destra e a sinistra; ma la madre non si trovava.
Finalmente, a pochi passi dall'imboccatura di via Roma, si vide una donna
slanciarsi verso il carro... Ah! mai più la dimenticherò! Non pareva più una
creatura umana, aveva i capelli sciolti, la faccia sformata, le vesti lacere, si
slanciò avanti mettendo un rantolo che non si capì se fosse di gioia, d'angoscia
o di rabbia, e avventò le mani come due artigli per afferrar la figliuola. Il
carro si fermò. - Eccola qui -, disse il signore, porgendo la bimba, dopo averla
baciata, e la mise tra le braccia di sua madre, che se la strinse al seno come
una furia... Ma una delle due manine restò un minuto secondo tra le mani del
signore, e questi strappatosi dalla destra un anello d'oro con un grosso
diamante, e infilatolo con un rapido movimento in un dito della piccina: -
Prendi, - le disse, - sarà la tua dote di sposa. - La madre restò lì come
incantata, la folla proruppe in applausi, il signore si rimise la maschera, i
suoi compagni ripresero il canto, e il carro ripartì lentamente in mezzo a una
tempesta di battimani e d'evviva.
I
ragazzi ciechi
23, giovedì
Il
maestro è molto malato e mandarono in vece sua quello della quarta, che è stato
maestro nell'Istituto dei ciechi; il più vecchio di tutti, così bianco che par
che abbia in capo una parrucca di cotone, e parla in un certo modo, come se
cantasse una canzone malinconica; ma bene, e sa molto. Appena entrato nella
scuola, vedendo un ragazzo con un occhio bendato, s'avvicinò al banco e gli
domandò che cos'aveva. - Bada agli occhi, ragazzo, - gli disse. - E allora
Derossi gli domandò: - É vero, signor maestro, che è stato maestro dei ciechi? -
Sì, per vari anni, - rispose. E Derossi disse a mezza voce: - Ci dica qualche
cosa.
Il maestro s'andò a sedere a tavolino.
Coretti disse forte: - L'istituto dei ciechi è in via Nizza.
- Voi dite ciechi, ciechi, - disse il maestro, - così, come direste malati e
poveri o che so io. Ma capite bene il significato di quella parola? Pensateci un
poco. Ciechi! Non veder nulla, mai! Non distinguere il giorno dalla notte, non
veder né il cielo né il sole né i propri parenti, nulla di tutto quello che s'ha
intorno e che si tocca; essere immersi in una oscurità perpetua, e come sepolti
nelle viscere della terra! Provate un poco a chiudere gli occhi e a pensare di
dover rimanere per sempre così: subito vi prende un affanno, un terrore, vi pare
che vi sarebbe impossibile di resistere, che vi mettereste a gridare, che
impazzireste o morireste. Eppure... poveri ragazzi, quando s'entra per la prima
volta nell'Istituto dei ciechi, durante la ricreazione, a sentirli suonar
violini e flauti da tutte le parti, e parlar forte e ridere, salendo e scendendo
le scale a passi lesti, e girando liberamente per i corridoi e pei dormitori,
non si direbbe mai che son quegli sventurati che sono. Bisogna osservarli bene.
C'è dei giovani di sedici o diciott'anni, robusti e allegri, che portano la
cecità con una certa disinvoltura, con una certa baldanza quasi; ma si capisce
dall'espressione risentita e fiera dei visi, che debbono aver sofferto
tremendamente prima di rassegnarsi a quella sventura. Ce n'è altri, dei visi
pallidi e dolci, in cui si vede una grande rassegnazione; ma triste, e si
capisce che qualche volta, in segreto, debbono piangere ancora. Ah! figliuoli
miei. Pensate che alcuni di essi hanno perduto la vista in pochi giorni, che
altri l'han perduta dopo anni di martirio, e molte operazioni chirurgiche
terribili, e che molti son nati così, nati in una notte che non ebbe mai alba
per loro, entrati nel mondo come in una tomba immensa, e che non sanno come sia
fatto il volto umano! Immaginate quanto debbono aver sofferto e quanto debbono
soffrire quando pensano così, confusamente, alla differenza tremenda che passa
fra loro e quelli che ci vedono, e domandano a sé medesimi: - Perché questa
differenza se non abbiamo alcuna colpa? - Io che son stato vari anni fra loro,
quando mi ricordo quella classe, tutti quegli occhi suggellati per sempre, tutte
quelle pupille senza sguardo e senza vita, e poi guardo voi altri... mi pare
impossibile che non siate tutti felici. Pensate: ci sono circa ventisei mila
ciechi in Italia! Ventisei mila persone che non vedono luce, capite; un esercito
che c'impiegherebbe quattro ore a sfilare sotto le nostre finestre!
Il maestro tacque; non si sentiva un alito nella scuola. Derossi domandò se era
vero che i ciechi hanno il tatto più fino di noi.
Il maestro disse: - É
vero. Tutti gli altri sensi si raffinano in loro, appunto perché, dovendo
supplire fra tutti a quello della vista, sono più e meglio esercitati di quello
che non siano da chi ci vede. La mattina, nei dormitori, l'uno domanda
all'altro: - C'è il sole? - e chi è più lesto a vestirsi scappa subito nel
cortile ad agitar le mani per aria, per sentire se c'è il tepore del sole, e
corre a dar la buona notizia: - C'è il sole! - Dalla voce d'una persona si fanno
un'idea della statura; noi giudichiamo l'animo d'un uomo dall'occhio, essi dalla
voce; ricordano le intonazioni e gli accenti per anni. S'accorgono se in una
stanza c'è più d'una persona, anche se una sola parla, e le altre restano
immobili. Al tatto s'accorgono se un cucchiaio è poco o molto pulito. Le bimbe
distinguono la lana tinta da quella di color naturale. Passando a due a due per
le strade, riconoscono quasi tutte le botteghe all'odore, anche quelle in cui
noi non sentiamo odori. Tirano la trottola, e a sentire il ronzìo che fa
girando, vanno diritti a pigliarla senza sbagliare. Fanno correre il cerchio,
giocano ai birilli, saltano con la funicella, fabbricano casette coi sassi,
colgono le viole come se le vedessero, fanno stuoie e canestrini intrecciando
paglia di vari colori, speditamente e bene; tanto hanno il tatto esercitato! Il
tatto è la loro vista, è uno dei più grandi piaceri per loro quello di toccare,
di stringere, d'indovinare la forma delle cose tastandole. É commovente vederli,
quando li conducono al museo industriale, dove li lascian toccare quello che
vogliono, veder con che festa si gettano sui corpi geometrici, sui modellini di
case, sugli strumenti, con che gioia palpano, stropicciano, rivoltano fra le
mani tutte le cose, per vedere come son fatte. Essi dicono vedere!
Garoffi interruppe il maestro per domandargli se era vero che i ragazzi ciechi
imparano a far di conto meglio degli altri.
Il maestro rispose: - É
vero. Imparano a far di conto e a leggere. Hanno dei libri fatti apposta, coi
caratteri rilevati; ci passano le dita sopra, riconoscon le lettere, e dicon le
parole; leggono corrente. E bisogna vedere, poveretti, come arrossiscono quando
commettono uno sbaglio. E scrivono pure, senza inchiostro. Scrivono sur una
carta spessa e dura con un punteruolo di metallo che fa tanti punticini incavati
e aggrappati secondo un alfabeto speciale; i quali punticini riescono in rilievo
sul rovescio della carta per modo che voltando il foglio e strisciando le dita
su quei rilievi, essi possono leggere quello che hanno scritto, ed anche la
scrittura d'altri, e così fanno delle composizioni, e si scrivono delle lettere
fra loro. Nella stessa maniera scrivono i numeri e fanno i calcoli. E calcolano
a mente con una facilità incredibile, non essendo divagati dalla vista delle
cose, come siamo noi. E se vedeste come sono appassionati per sentir leggere,
come stanno attenti, come ricordano tutto, come discutono fra loro, anche i
piccoli, di cose di storia e di lingua, seduti quattro o cinque sulla stessa
panca, senza voltarsi l'un verso l'altro, e conversando il primo col terzo, il
secondo col quarto, ad alta voce e tutti insieme, senza perdere una sola parola,
da tanto che han l'orecchio acuto e pronto! E danno più importanza di voi altri
agli esami, ve lo assicuro, e s'affezionano di più ai loro maestri. Riconoscono
il maestro al passo e all'odore; s'accorgono se è di buono o cattivo umore, se
sta bene o male, nient'altro che dal suono d'una sua parola; vogliono che il
maestro li tocchi, quando gli incoraggia e li loda, e gli palpan le mani e le
braccia per esprimergli la loro gratitudine. E si voglion bene anche fra loro,
sono buoni compagni. Nel tempo della ricreazione sono quasi sempre insieme quei
soliti. Nella sezione delle ragazze, per esempio, formano tanti gruppi, secondo
lo strumento che suonano, le violiniste, le pianiste, le suonatrici di flauto, e
non si scompagnano mai. Quando hanno posto affetto a uno, è difficile che se ne
stacchino. Trovano un gran conforto nell'amicizia. Si giudicano rettamente, fra
loro. Hanno un concetto chiaro e profondo del bene e del male. Nessuno s'esalta
come loro al racconto d'un'azione generosa o d'un fatto grande.
Votini domandò se suonano bene.
- Amano la musica ardentemente, - rispose il maestro. - É la loro gioia, è la
loro vita la musica. Dei ciechi bambini, appena entrati nell'Istituto, son
capaci di star tre ore immobili in piedi a sentir sonare. Imparano facilmente,
suonano con passione. Quando il maestro dice a uno che non ha disposizione alla
musica, quegli ne prova un grande dolore, ma si mette a studiare disperatamente.
Ah! se udiste la musica là dentro se li vedeste quando suonano colla fronte alta
col sorriso sulle labbra, accesi nel viso, tremanti dalla commozione, estatici
quasi ad ascoltar quell'armonia che rispandono nell'oscurità infinita che li
circonda, come sentireste che è una consolazione divina la musica! E giubilano,
brillano di felicità quando un maestro dice loro: - Tu diventerai un artista. -
Per essi il primo nella musica, quello che riesce meglio di tutti al pianoforte
o al violino, è come un re; lo amano, lo venerano. Se nasce un litigio fra due
di loro, vanno da lui; se due amici si guastano, è lui che li riconcilia. I più
piccini, a cui egli insegna a sonare, lo tengono come un padre. Prima d'andare a
dormire, vanno tutti a dargli la buona notte. E parlano continuamente di musica.
Sono già a letto, la sera tardi, quasi tutti stanchi dallo studio e dal lavoro,
e mezzo insonniti; e ancora discorrono a bassa voce di opere, di maestri, di
strumenti, d'orchestre. Ed è un castigo così grande per essi l'esser privati
della lettura o della lezione di musica, ne soffrono tanto dolore, che non s'ha
quasi mai il coraggio di castigarli in quel modo. Quello che la luce è per i
nostri occhi, la musica è per il loro cuore.
Derossi domandò se non si poteva andarli a vedere.
- Si può, - rispose il maestro; - ma voi, ragazzi, non ci dovete andare per ora.
Ci andrete più tardi, quando sarete in grado di capire tutta la grandezza di
quella sventura, e di sentire tutta la pietà che essa merita.
É
uno spettacolo triste, figliuoli. Voi vedete là qualche volta dei ragazzi seduti
di contro a una finestra spalancata, a godere l'aria fresca, col viso immobile,
che par che guardino la grande pianura verde e le belle montagne azzurre che
vedete voi...; e a pensare che non vedon nulla, che non vedranno mai nulla di
tutta quella immensa bellezza, vi si stringe l'anima come se fossero diventati
ciechi in quel punto. E ancora i ciechi nati, che non avendo mai visto il mondo,
non rimpiangono nulla, perché hanno l'immagine d'alcuna cosa, fanno meno
compassione. Ma c'è dei ragazzi ciechi da pochi mesi, che si ricordano ancora di
tutto, che comprendono bene tutto quello che han perduto, e questi hanno di più
il dolore di sentirsi oscurare nella mente, un poco ogni giorno, le immagini più
care, di sentirsi come morire nella memoria le persone più amate. Uno di questi
ragazzi mi diceva un giorno con una tristezza inesprimibile: - Vorrei ancora
aver la vista d'una volta, appena un momento, per rivedere il viso della mamma,
che non lo ricordo più - E quando la mamma va a trovarli, le mettono le mani sul
viso, la toccano bene dalla fronte al mento e alle orecchie, per sentir com'è
fatta, e quasi non si persuadono di non poterla vedere, e la chiamano per nome
molte volte come per pregarla che si lasci, che si faccia vedere una volta.
Quanti escono di là piangendo, anche uomini di cuor duro! E quando s'esce, ci
pare un'eccezione la nostra, un privilegio quasi non meritato di veder la gente,
le case, il cielo. Oh! non c'è nessuno di voi, ne son certo, che uscendo di là
non sarebbe disposto a privarsi d'un po' della propria vista per darne un
barlume almeno a tutti quei poveri fanciulli, per i quali il sole non ha luce e
la madre non ha viso!
Il
maestro malato
25, sabato
Ieri
sera, uscendo dalla scuola, andai a visitare il mio maestro malato. Dal troppo
lavorare s'è ammalato. Cinque ore di lezione al giorno, poi un'ora di
ginnastica, poi altre due ore di scuola serale, che vuol dire dormir poco,
mangiare di scappata e sfiatarsi dalla mattina alla sera: s'è rovinata la
salute. Così dice mia madre. Mia madre m'aspettò sotto il portone, io salii
solo, e incontrai per le scale il maestro della barbaccia nera, - Coatti, -
quello che spaventa tutti e non punisce nessuno, egli mi guardò con gli occhi
larghi e fece la voce del leone, per celia, ma senza ridere. Io ridevo ancora
tirando il campanello, al quarto piano; ma rimasi male subito, quando la serva
mi fece entrare in una povera camera, mezz'oscura, dove era coricato il mio
maestro. Era in un piccolo letto di ferro, aveva la barba lunga. Si mise una
mano alla fronte, per vederci meglio, ed esclamò con la sua voce affettuosa: -
Oh Enrico! - Io m'avvicinai al letto, egli mi pose una mano sulla spalla, e
disse: - Bravo, figliuolo. Hai fatto bene a venir a trovare il tuo povero
maestro. Son ridotto a mal partito, come vedi, caro il mio Enrico. E come va la
scuola? come vanno i compagni? Tutto bene, eh? anche senza di me. Ne fate di
meno benissimo, è vero? del vostro vecchio maestro. - Io volevo dir di no; egli
m'interruppe: - Via, via, lo so che non mi volete male. - E mise un sospiro. Io
guardavo certe fotografie attaccate alla parete. - Vedi? - egli mi disse. - Son
tutti ragazzi che m'han dato i loro ritratti, da più di vent'anni in qua. Dei
buoni ragazzi, son le mie memorie quelle. Quando morirò, l'ultima occhiata la
darò lì, a tutti quei monelli, fra cui ho passata la vita. Mi darai il ritratto
tu pure, non è vero, quando avrai finito le elementari? Poi prese un'arancia sul
tavolino da notte e me la mise in mano. - Non ho altro da darti, - disse, - è un
regalo da malato. - Io lo guardavo e avevo il cuor triste, non so perché. - Bada
eh... - riprese a dire - io spero di cavarmela; ma se non guarissi più... vedi
di fortificarti nell'aritmetica, che è il tuo debole; fa' uno sforzo! non si
tratta che d'un primo sforzo perché, alle volte, non è mancanza di attitudine, è
un preconcetto, è come chi dicesse una fissazione. - Ma intanto respirava forte,
si vedeva che soffriva. - Ho una febbraccia, - sospirò, - son mezz'andato. Mi
raccomando, dunque. Battere sull'aritmetica, sui problemi. Non riesce alla
prima? Si riposa un po' e poi si ritenta. Non riesce ancora? Un altro po' di
riposo e poi daccapo. E avanti, ma tranquillamente, senza affannarsi, senza
montarsi la testa. Va'. Saluta la mamma. E non rifar più le scale, ci rivedremo
alla scuola. E se non ci rivedremo, ricordati qualche volta del tuo maestro di
terza, che t'ha voluto bene. - A quelle parole mi venne da piangere. - China la
testa, - egli mi disse. Io chinai la testa sul cappezzale; egli mi baciò sui
capelli. Poi mi disse: - Va', - e voltò il viso verso il muro. E io volai giù
per le scale perché avevo bisogno d'abbracciar mia madre.
La strada
25, sabato
Io
t'osservavo dalla finestra, questa sera, quando tornavi da casa del maestro, tu
hai urtato una donna. Bada meglio a come cammini per la strada. Anche lì ci sono
dei doveri. Se misuri i tuoi passi e i tuoi gesti in una casa privata, perché
non dovresti far lo stesso nella strada, che è la casa di tutti? Ricordati,
Enrico. Tutte le volte che incontri un vecchio cadente, un povero, un donna con
un bimbo in braccio, uno storpio con le stampelle, un uomo curvo sotto un
carico, una famiglia vestita a lutto, cedile il passo con rispetto: noi dobbiamo
rispettare la vecchiaia, la miseria, l'amor materno, l'infermità, la fatica, la
morte.
Ogni volta che vedi una persona a cui arriva addosso una carrozza, tiralo via,
se è un fanciullo, avvertilo, se è un uomo; domanda sempre che cos'ha al bambino
che piange, raccogli il bastone al vecchio che l'ha lasciato cadere. Se due
fanciulli rissano, dividili, se son due uomini allontànati, non assistere allo
spettacolo della violenza brutale, che offende e indurisce il cuore. E quando
passa un uomo legato fra due guardie, non aggiungere la tua alla curiosità
crudele della folla: egli può essere un innocente. Cessa di parlar col tuo
compagno e di sorridere quando incontri una lettiga d'ospedale, che porta forse
un moribondo, o un convoglio mortuario, ché ne potrebbe uscir uno domani di casa
tua. Guarda con riverenza tutti quei ragazzi degli istituti che passano a due a
due: i cechi, i muti, i rachitici, gli orfani, i fanciulli abbandonati: pensa
che è la sventura e la carità umana che passa. Fingi sempre di non vedere chi ha
una deformità ripugnante o ridicola. Spegni sempre ogni fiammifero acceso che tu
trovi sui tuoi passi, che potrebbe costar la vita a qualcuno. Rispondi sempre
con gentilezza al passeggiero che ti domanda la via. Non guardar nessuno
ridendo, non correre senza bisogno, non gridare. Rispetta la strada.
L'educazione d'un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno ch'egli tien per
la strada. Dove troverai la villania per le strade, troverai la villania nelle
case. E studiale, le strade, studia la città dove vivi; se domani tu ne fossi
sbalestrato lontano, saresti lieto d'averla presente bene alla memoria, di
poterla ripercorrere tutta col pensiero, - la tua città, la tua piccola patria,
- quella che è stata per tanti anni il tuo mondo, - dove hai fatto i primi passi
al fianco di tua madre, provato le prime commozioni, aperto la mente alle prime
idee, trovato i primi amici. Essa è stata una madre per te: t'ha istruito,
dilettato, protetto. Studiala nelle sue strade e nella sua gente, - ed amala, -
e quando la senti ingiuriare, difendila.
TUO PADRE
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