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letzte Änderung 20.04.2008
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Teil 2 (parte seconda)

Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto

Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare le quattro monete nel Campo dè Miracoli.

Come potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una buona mezz'ora, a motivo di quel suo naso che non passava più dalla porta di camera; e lo fece per dargli una severa lezione perché si correggesse dal brutto vizio di dire le bugie, il più brutto vizio che possa avere un ragazzo. Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa dalla gran disperazione, allora, mossa a pietà, battè le mani insieme, e a quel segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di grossi uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel naso enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale.

- Quanto siete buona, Fata mia, - disse il burattino, asciugandosi gli occhi, - e quanto bene vi voglio!

- Ti voglio bene anch'io, - rispose la Fata, - e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la tua buona sorellina...

- Io resterei volentieri... ma il mio povero babbo?

- Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato digià avvertito: e prima che faccia notte, sarà qui.

- Davvero?... - gridò Pinocchio, saltando dall'allegrezza. - Allora, Fatina mia, se vi contentate, vorrei andargli incontro! Non vedo l'ora di poter dare un bacio a quel povero vecchio, che ha sofferto tanto per me!

- Vai pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono sicurissima che lo incontrerai.

Pinocchio partì: e appena entrato nel bosco, cominciò a correre come un capriolo. Ma quando fu arrivato a un certo punto, quasi in faccia alla Quercia grande, si fermò, perché gli parve di aver sentito gente fra mezzo alle frasche. Difatti vide apparire sulla strada, indovinate chi?... la Volpe e il Gatto, ossia i due compagni di viaggio, coi quali aveva cenato all'osteria del Gambero Rosso.

- Ecco il nostro caro Pinocchio! - gridò la Volpe, abbracciandolo e baciandolo. - Come mai sei qui?

- Come mai sei qui? - ripetè il Gatto.

- è una storia lunga, - disse il burattino, - e ve la racconterò a comodo. Sappiate però che l'altra notte, quando mi avete lasciato solo nell'osteria, ho trovato gli assassini per la strada...

- Gli assassini?... O povero amico! E che cosa volevano?

- Mi volevano rubare le monete d'oro.

- Infami!... - disse la Volpe.

- Infamissimi! - ripetè il Gatto.

- Ma io cominciai a scappare, - continuò a dire il burattino, - e loro sempre dietro: finché mi raggiunsero e m'impiccarono a un ramo di quella quercia.

E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lì a due passi.

- Si può sentir di peggio? - disse la Volpe. - In che mondo siamo condannati a vivere? Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri galantuomini?...

Nel tempo che parlavano così, Pinocchio si accorse che il Gatto era zoppo dalla gamba destra davanti, perché gli mancava in fondo tutto lo zampetto cogli unghioli: per cui gli domandò:

- Che cosa hai fatto del tuo zampetto?

Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s'imbrogliò. Allora la Volpe disse subito:

- Il mio amico è troppo modesto,- e per questo non risponde. Risponderò io per lui. Sappi dunque che un'ora fa abbiamo incontrato sulla strada un vecchio lupo, quasi svenuto dalla fame, che ci ha chiesto un po' d'elemosina. Non avendo noi da dargli nemmeno una lisca di pesce, che cosa ha fatto l'amico mio, che ha davvero un cuore di Cesare?... Si è staccato coi denti uno zampetto delle sue gambe davanti e l'ha gettato a quella povera bestia, perché potesse sdigiunarsi. E la Volpe nel dir così, si asciugò una lacrima.

Pinocchio, commosso anche lui, si avvicinò al Gatto, sussurrandogli negli orecchi:

- Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!...

- E ora che cosa fai in questi luoghi? - domandò la Volpe al burattino.

- Aspetto il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento.

- E le tue monete d'oro?

- Le ho sempre in tasca, meno una che la spesi all'osteria del Gambero Rosso.

- E pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani mille e duemila! Perché non dai retta al mio consiglio? Perché non vai a seminarle nel Campo dei miracoli?

- Oggi è impossibile: vi anderò un altro giorno.

- Un altro giorno sarà tardi, - disse la Volpe.

- Perché?

- Perché quel campo è stato comprato da un gran signore e da domani in là non sarà più permesso a nessuno di seminarvi i denari.

- Quant'è distante di qui il Campo dei miracoli?

- Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz'ora sei là: semini subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila e stasera ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con noi?

Pinocchio esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona Fata, il vecchio Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma poi finì col fare come fanno tutti i ragazzi senza un fil di giudizio e senza cuore; finì, cioè, col dare una scrollatina di capo, e disse alla Volpe e al Gatto:

- Andiamo pure: io vengo con voi.

E partirono.

Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva nome "Acchiappa-citrulli". Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall'appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l'elemosina d'un chicco di granturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d'oro e d'argento, oramai perdute per sempre.

In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina.

- E il Campo dei miracoli dov'è? - domandò Pinocchio.

- è qui a due passi.

Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giù, somigliava a tutti gli altri campi.

- Eccoci giunti, - disse la Volpe al burattino. - Ora chinati giù a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo e mettici dentro le monete d'oro.

Pinocchio ubbidì. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d'oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprì la buca con un po' di terra.

- Ora poi, - disse la Volpe, - vai alla gora qui vicina, prendi una secchia d'acqua e annaffia il terreno dove hai seminato.

Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva lì per lì una secchia, si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d'acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò:

- C'è altro da fare?

- Nient'altro, - rispose la Volpe. - Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti e troverai l'arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti carichi di monete. Il povero burattino, fuori di sé dalla contentezza, ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo.

- Noi non vogliamo regali, - risposero quei due malanni. - A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e siamo contenti come pasque.

Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se ne andarono per i fatti loro.

Pinocchio è derubato delle sue monete d'oro e, per gastigo, si busca quattro mesi di prigione.

Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno; e, quando gli parve che fosse l'ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.

E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto pensava dentro di sé:

- E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell'albero duemila?... E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila?... E se invece di cinquemila ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che diventerei!... Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panettoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna.

Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla: entrò sul campo... andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e, dimenticando le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano di tasca e si dette una lunghissima grattatina di capo.

In quel mentre sentì fischiare negli orecchi una gran risata: e voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso pappagallo che si spollinava le poche penne che aveva addosso.

- Perché ridi? - gli domandò Pinocchio con voce di bizza.

- Rido, perché nello spollinarmi mi son fatto il solletico sotto le ali.

Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d'acqua la solita ciabatta, si pose nuovamente ad annaffiare la terra che ricuopriva le monete d'oro.

Quand'ecco che un'altra risata, anche più impertinente della prima, si fece sentire nella solitudine silenziosa di quel campo.

- Insomma, - gridò Pinocchio, arrabbiandosi, - si può sapere, Pappagallo mal educato, di che cosa ridi?

- Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.

- Parli forse di me?

- Sì, parlo di te, povero Pinocchio, di te che sei così dolce di sale, da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagioli e le zucche. Anch'io l'ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi, bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll'ingegno della propria testa.

- Non ti capisco, - disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura.

- Pazienza! Mi spiegherò meglio, - soggiunse il Pappagallo. - Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d'oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo!

Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca così profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non ci erano più.

Allora, preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.

Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d'oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo di una flussione d'occhi, che lo tormentava da parecchi anni.

Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l'iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.

Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima arte al racconto: s'intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.

Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:

- Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione.

Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.

E lì v'ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di più, se non si fosse dato un caso fortunatissimo. Perché bisogna sapere che il giovane Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una gran vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e velocipedi, e in segno di maggiore esultanza, volle che fossero aperte le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.

- Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch'io, - disse Pinocchio al carceriere.

- Voi no, - rispose il carceriere, - perché voi non siete del bel numero...

- Domando scusa, - replicò Pinocchio, - sono un malandrino anch'io.

- In questo caso avete mille ragioni, - disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.

Liberato dalla prigione, si avvia per tornare a casa della Fata; ma lungo la strada trova un serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliuola.

Figuratevi l'allegrezza di Pinocchio, quando si sentì libero. Senza stare a dire che è e che non è, uscì subito fuori della città e riprese la strada che doveva ricondurlo alla Casina della Fata.

A motivo del tempo piovigginoso, la strada era diventata tutta un pantano e ci si andava fino a mezza gamba.

Ma il burattino non se ne dava per inteso.

Tormentato dalla passione di rivedere il suo babbo e la sua sorellina dai capelli turchini, correva a salti come un cane levriero, e nel correre le pillacchere gli schizzavano fin sopra il berretto. Intanto andava dicendo fra sé e sé:

- Quante disgrazie mi sono accadute... E me le merito! perché io sono un burattino testardo e piccoso... e voglio far sempre tutte le cose a modo mio, senza dar retta a

quelli che mi voglion bene e che hanno mille volte più giudizio di me!... Ma da questa volta in là, faccio proponimento di cambiar vita e di diventare un ragazzo ammodo e ubbidiente... Tanto ormai ho bell'e visto che i ragazzi, a essere disubbidienti, ci scapitano sempre e non ne infilano mai una per il sù verso. E il mio babbo mi avrà aspettato?... Ce lo troverò a casa della Fata? è tanto tempo, pover'uomo, che non lo vedo più, che mi struggo di fargli mille carezze e di finirlo dai baci! E la Fata mi perdonerà la brutta azione che le ho fatto?... E pensare che ho ricevuto da lei tante attenzioni e tante cure amorose... e pensare che se oggi son sempre vivo, lo debbo a lei! Ma si può dare un ragazzo più ingrato e più senza cuore di me?...

Nel tempo che diceva così, si fermò tutt'a un tratto spaventato e fece quattro passi indietro.

Che cosa aveva veduto?...

Aveva veduto un grosso Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntuta, che gli fumava come una cappa di camino.

Impossibile immaginarsi la paura del burattino: il quale, allontanatosi più di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un monticello di sassi, aspettando che il Serpente se ne andasse una buona volta per i fatti suoi e lasciasse libero il passo della strada.

Aspettò un'ora; due ore; tre ore; ma il Serpente era sempre là, e, anche di lontano, si vedeva il rosseggiare dè suoi occhi di fuoco e la colonna di fumo che gli usciva dalla punta della coda.

Allora Pinocchio, figurandosi di aver coraggio, si avvicinò a pochi passi di distanza, e facendo una vocina dolce, insinuante e sottile, disse al Serpente:

- Scusi, signor Serpente, che mi farebbe il piacere di tirarsi un pochino da una parte, tanto da lasciarmi passare?

Fu lo stesso che dire al muro. Nessuno si mosse.

Allora riprese colla solita vocina:

- Deve sapere, signor Serpente, che io vado a casa, dove c'è il mio babbo che mi aspetta e che è tanto tempo che non lo vedo più!... Si contenta dunque che io seguiti per la mia strada?

Aspettò un segno di risposta a quella dimanda: ma la risposta non venne: anzi il Serpente, che fin allora pareva arzillo e pieno di vita, diventò immobile e quasi irrigidito. Gli occhi gli si chiusero e la coda gli smesse di fumare.

- Che sia morto davvero?... - disse Pinocchio, dandosi una fregatina di mani dalla gran contentezza: e senza mettere tempo in mezzo, fece l'atto di scavalcarlo, per passare dall'altra parte della strada. Ma non aveva ancora finito di alzare la gamba, che il Serpente si rizzò all'improvviso, come una molla scattata: e il burattino, nel tirarsi indietro, spaventato, inciampò e cadde per terra.

E per l'appunto cadde così male, che restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria.

Alla vista di quel burattino, che sgambettava a capofitto con una velocità incredibile il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta morì davvero.

Allora Pinocchio ricominciò a correre per arrivare a casa della Fata prima che si facesse buio. Ma lungo la strada non potendo più reggere ai morsi terribili della fame, saltò in un campo coll'intenzione di cogliere poche ciocche d'uva moscadella. Non l'avesse mai fatto!

Appena giunto sotto la vite, crac... sentì stringersi le gambe da due ferri taglienti, che gli fecero vedere quante stelle c'erano in cielo.

Il povero burattino era rimasto preso da una tagliuola appostata là da alcuni contadini per beccarvi alcune grosse faine, che erano il flagello di tutti i pollai del vicinato.

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